Anche
il congedo ha il suo racconto profondo
di
Don Pierangelo Sequeri
Sento che viene il tempo in cui la
celebrazione di questo 'giorno della memoria' - caduto
giusto ieri - renderà insignificanti le sue ultime
controfigure: bislacche, patetiche, ossessive.
Hallowen testa-di-morto, per dire, che
fece il patto col diavolo, gli andò male, e non trova più
pace. E si traveste da bambino innocente, per farci
diventare zucche vuote anche noi. Per non parlare di 'morti
viventi', trucida parodia di una pulsione distruttiva che
non finisce mai di morire. Non ci descrivono già,
scientificamente, come una specie di predatori vincenti (per
il momento), dove si selezionano i migliori e i più avidi,
a spese dei più deboli e meno voraci?
Proprio in una fase della cultura
sociale in cui siamo concentrati - con serie ragioni, certo
- sui temi dell'inizio-vita e del fine-vita, la nascita e la
morte rischiano di diventare 'tecnicamente' importanti e
così 'filosoficamente' insignificanti.
In questo modo, però, insignificante
diventa tutto ciò che viene prima, e tutto ciò che viene
dopo. Che fa parte del nostro nascere e morire, cuore e
anima, sangue e carne. Ed è moltissimo, se ci pensate.
Eppure, siamo quasi rimasti senza parole su questo. La
catena delle generazioni, che sostengono la nostra
identità, nutrita di racconti delle tenerezze e delle
durezze attraversate per arrivare fino a noi, con il loro
carico di ostacoli superati e di ferite portate, con le
quali siamo in debito.
E le fantasie d'amore nelle quali è
stato predisposto il nostro primo habitat, dove abbiamo
appreso, inconsapevoli, cose che altrimenti nessuno ci
avrebbe potuto insegnare; e abbiamo incorporato attese e
promesse, per le quali eravamo pronti, da subito, a batterci
e ad appassionarci.
E la ferita ultima, che non si lascia
rimarginare: il duro congedo. Improvviso e tagliente, oppure
in lungo avvicinamento, contiene fragilità delicate, che ci
fanno debitori gli uni degli altri, senza possibilità di
saldare veramente il conto. La volontà di potenza, quel
conto lo può stracciare, ma esso rimane scritto. Nel cielo
stellato sopra di noi e nella coscienza morale dentro di
noi, almeno.
Anche il congedo ha il suo racconto
profondo, che continua attraverso di noi. E molto rimane in
sospeso, che il racconto delle generazioni deve tenere in
vita, incorporandolo - letteralmente - nella propria.
Toglieteci il racconto del prima e del dopo, e si svuoterà
anche la vita di mezzo.
L'umano che viene separato dall'umano
lascia una ferita che non si deve rimarginare con un atto di
forza, né cancellare con un atto di rimozione. L'umano che
si separa dalla storia di cui è figlio, e di cui diventa
grembo e guida a sua volta, ti muore dentro. La memoria
credente, a rigore, non ci ricorda propriamente 'la
morte'.
La memoria credente ricorda 'i morti':
il loro arrivo, il loro transito, il loro congedo. Il loro
significato: incancellabile. Insomma, ciò che dell'umano
non va perduto, perché i morti non sono 'niente', e Dio è
Signore del prima e del dopo.
E ciò che di esso non dobbiamo
perdere, perché la passione del Figlio per l'umano ci
interrogherà proprio sulla tenerezza che avremo riservato
all'evento del venire al mondo e del congedo da esso.
Perché l'umano non viene 'da niente'. Nella fragilità del
suo accadere, si accende qualcosa di inviolabile e di
eterno. Per tutti noi.
Fonte: Avvenire
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