MISSIONE BIRMANIA

 

 

Ci è stato consegnato un manoscritto di 9 pagine che dovrebbe risalire al 1929.

Un vero cimelio conservato da una famiglia di Giugliano. E' un diario che dovrebbe appartenere al p. Pasquale Ziello di Sant'Arpino (1901-1976), missionario del Pime, che racconta la vita dura trascorsa su e giù per i monti della Birmania. Ve lo presentiamo.

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Tra Kani… che non son cani

Non scesi, no, precipitai di sella

 

Avanti! Svelto! Non si aspetta che te! Vorrai portar sempre la coda agli altri? – cominciò Pluto con la voce chioccia[1]

Pluto in questo caso era il buon Menico (P. Barbieri, chi non lo conosce?) che veniva a sollecitarmi mentre, in attesa dell’auto, ero andato in istanza per la terza volta a cercar qualche altra cosa, di quelle che, dimenticate nell’agitazione della vigilia, affiorano una per volta alla mente proprio all’ultima ora e magari agli ultimi istanti.

- Coraggio! Devi esser sempre il primo, invece, in tutto! -aggiunse con delicatezza la voce amica, subito sopraffatta dal frastuono cupo della macchina fremente nell’impazienza di slanciarsi alla corsa.

In poco più di un’ora siamo al fiume. Poi giù, a tre per volta, nella (! manca un pezzo di foglio) barca snelletta e leggera: fermi, senza paura, ché un balzo malcauto potrebbe capovolgerla! Ed eccoci all’altra riva, in faccia ai monti che anch’io posso dir nostri, finalmente; e i primi che ci si ergono davanti son proprio i miei regni, come li chiamava il mio predecessore e li chiamo anch’io adesso. I cavalli son lì ad attenderci, seri, placidi, li diresti consci della loro dignità di cavalli missionari.

Fuori dal sacco la sella nuova e la briglia nuova! Faran bella figura, lisce, lustre, accanto alle altre più o meno decrepite, unte, annerite. Vedermi lì, intanto che qualcuno venga a bardarmi il cavallo, vedermi con in mano quelle nuove armi tanto differenti da quelle usate per le…battaglie di tavolino, ai piedi quelle pesanti scarpacce chiodate, e attorno alle gambe quelle fasce grigio-verdi, ricordi d’una vita militare –non della guerra, però– mi sentivo un po’ in un imbarazzo analogo a quello di Davide cinto il tenero corpicciuolo di pastorello delle pesanti armature guerresche. “Usum non habeo!” –Oh! povero me,-dicevo- sono come un pulcino nella stoppa. Come farò adesso a inforcar gli

arcioni? e poi star su in bilico tante ore –sette, m’han detto- senza andare a rompermi l’osso sacro e tutte le costole e questi benedetti fanali, luce degli  occhi miei?... Sarà almeno una bestia quieta? –domando all’ex padrone del cavallo- Vizi non ne avrà? Scherzi non ne farà?

E certo avevo più motivo di D. Abbondio a far simili domande, perché non potevo dire come lui di essere un, sia pur povero, cavalcatore. Basta, il cielo me la mandi buona –conclusi anch’io dopo tutte le assicurazioni dell’ex padrone e i “va pur su di buon animo” che mi venivano d’ogni parte. Così, acciuffando forte forte la criniera, il piede ficcato ben dentro nella staffa, arrampicandomi alla sella –come D. Abbondio- sorretto dall’aiutante, su, su, su, sono a cavallo finalmente! Ora sì che mi par di sentirmi davvero missionario. Non fo per dire, ma sono un cavaliere… a cavallo e non soltanto un cavaliere dell’ideale! La carovana dei 12 Padri muove i primi passi, un dietro l’altro, - “come i frati minori vanno per via”[2] –non cantando le letane, s’intende, bensì tra scoppi d’ilarità capaci d’esilarare un D. Abbondio cavalcante tra i brutti ceffi del castello dell’Innominato. Io, però, benché non fossi preso da malinconia, tuttavia non potevo non apparire impacciato, timido e perfin goffo con quella testa quasi rannicchiata tra le spalle, le braccia aggranchite, il tronco ricurvo, le gambe strette al ventre della bestia e le dita affondate con tutta la forza nella criniera, sicché pareva –diceva il mio P. Lanfranconi- stessi sollevando una pianta! Che volete? il coraggio uno non se lo può dare. Perciò mi diedi a chiedere ora all’uno ora all’altro dei veterani, le prime lezioni elementari di equitazione. Ma erano poco men che inefficaci, perché tutte teoriche. E allora il mio buon cavallo, accortosene, pensò di venirmi in aiuto, dandomi una brusca ma efficacissima lezione pratica a metodo sperimentale. Ecco come. Mi si andava dicendo che se mai mi saltasse

il ticchio di scendere un istante a misurar la strada, stessi attento a vòtar (!) la sella con un po’ d’eleganza; ché, oltre all’essere goffo, sarebbe anche pericoloso restar coi piedi ingarbugliati nelle staffe. Or avvenne proprio di lì a poco che il cavallo, o perché ombratosi per falso vedere, o perché intollerante di sentirsi sulla groppa un peso più grave del solito, o per significarmi che non accettava gli scherzi e le carezze che gli andavo facendo, si imbizzarrì e senza previo permesso si diede a correre all’impazzata. La subitanea paura (la paura, si sa, non ragiona) mi fece immaginare imminente e inevitabile una caduta.

Allora, ricordandomi della norma datami di fresco per il caso, pensai a rendere almeno un po’… cavalleresco il ruzzolone; e liberai svelto i piedi dalle staffe. Ma, non so per qual simpatia misteriosa che ci dev’essere tra i miei piedi e le mie mani, anche queste istintivamente lasciarono la briglia. E così, colui che fin allora era tanto invanito agli onori di chi voleva perfino baciargli i piedi, fu scaraventato, senza tanti riguardi, come un ingombro pesante, là sul fango della strada, a due metri di distanza, e da una bestia! Sic transit gloria mundi!...

Ma a parte la poesia, il fatto è che la caduta fu un po’ troppo prosastica, perché andai a sbattere violentemente l’anca su una sporgenza sassosa, che mi fece sentire le delizie del suo contatto per tutto il resto del viaggio e poi per più di due settimane, impedendomi financo di alzarmi per la S. Messa il giorno seguente. Vedete un po’ cosa significhi perder le staffe! Che dev’essere, poi, perdere quelle della propria testa? Che Dio mi liberi sempre dall’una e dall’altra disgrazia! E voglio anche imparare a non scherzar più colle bestie: la troppa confidenza è sempre padrona della mala creanza, mi diceva sempre mia madre.

 

T’amo o pio cavallo!!

Ma ora è passato il mio noviziato cavalleresco: una prova come quella descritta è bastata a rendermi un cavallerizzo senza macchia e senza paura, tale da raccogliere elogi persin dal Vescovo. Il quale soggiunse che quando cavalco  ho la maestà d’un imperatore e la solennità ieratica d’un busto da altare…. Il mio cavallo, poi continua le sue lezioni, ma ha cambiato argomento. M’insegna la pazienza, la docilità, la resistenza alle più dure fatiche. M’insegna a farmi, perché no? come un cavallo presso Dio: ut jumentum factus sum apud te[3]. Quando lo guardo, ossia che avanzi, di passo o a trotto col misurato

beccheggio della testa, che pare l’espressione d’una pazienza cosciente, e colla nobile giuba fluttuante, o che s’inerpichi faticosamente su chine ripide, ronchiose e sassose, su, su, su, trafelato, ansante, fradicio di sudore che gli gronda a canaletti, misto al sangue delle ferite aperte dalle sanguisughe e dalle zecche; come non esser tentato a dirgli: “T’amo o pio cavallo!” Come non esser tentato a credere a quel che dice qualche bell’umore dei nostri Padri: che dev’esserci un Paradiso anche per i nostri cavalli? E’ vero che anch’esso ha i suoi capricci, alle volte. Come quando ricalcitra riluttante a vedersi innanzi la briglia che deve costringergli la testa e il freno che deve masticare per tutto il tragitto o come quando, sfinito, s’impunta a non proseguire certe salite che, pare vogliano tirarti fuori l’anima, e vuole ad ogni costo che io lo liberi dal peso non insignificante del mio corpo e, da buon compagno, provi un po’ anch’io com’è duro calle lo scendere e salir per questi monti. Come non cedere allora di buona voglia, povera bestia? E come non dargli ragione quando, al sentire la secca schioppettata che annunzia il nostro arrivo ad un villaggio, dà un balzo, si sofferma e a me che lo sprono e lo incoraggio, volge certi occhi che voglion dire: “Ma, padroncino, le schioppettate non sono confetti!” Così, quando la strada è sur un rialto o un ciglione che rasenta –Dio me ne liberi!- un precipizio, e il cavallo, come la mula di D. Abbondio, “par che faccia a dispetto a tener sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le zampe sull’orlo, è inutile ostinarsi a “tirar la briglia dall’altra parte e rodersi di stizza” e imprecare alla bestia per quel suo “maledetto gusto di andar a cercare i pericoli dove c’è tanto sentiero”.

Il miglior partito è imitar D. Abbondio: “lasciarsi condurre a piacere altrui.”

A dir la verità, tutte queste virtù, se posso chiamarle così, non mi riescono tanto simpatiche, attraenti, imitabili, come quella che mi sembra

la più rilevante nel mio cavallo: la voracità. Quantunque ben pasciuto poco prima d’intraprendere un viaggio, non rifiuta mai i dolci inviti della tenera erbetta e delle verdi foglie che gli s’offrono allo sguardo, tanto più se lustre di rugiada…. Sicché spesso, quando le soste divengono troppo frequenti e la via lunga ne sospinge, bisogna far il crudele e strapparlo per forza dal ciuffo d’erba che si è chinato ad abboccare col tremolio impaziente delle grandi froge nere. Volete vedere fin dove arriva la ghiottoneria della mia bestia? Pensate che, spinto da questa, mi ha commesso, pochi giorni fa, due impertinenze, anzi due veri peccati, forse mortali: si è accompagnato con dei cavalli infedeli e dei protestanti (lui, il cavallo missionario!) e se n’è andato a scorazzare e mangiare il riso nei campi altrui. Lo hanno preso, anche lui, e cacciato in gattabuia. Non credete? Ebbene credete alla mia tasca cha dovuto sborsare ½ rupia (£. 3,50!) per riscattarlo (e 80 ne spesi per comprarlo!) e altra ½ rupia per riparare i danni al padrone…. Se fossi, però, un buon Missionario, dovrei anche qui elevarmi a mistiche considerazioni e imparare un’altra voracità: quella di uno zelo,

Che mai non empie la bramosa voglia

                   E dopo il pasto ha più fame di pria.[4]

Ma per ora debbo rassegnarmi a dover applicare a me, purtroppo, il solo senso…gastrologico di questi bei versi.

 

Di qua, di là, di giù, di su….

Invito, dunque, i miei lettori a procurarsi anche loro un cavallo, o almeno a montare sull’ippogrifo della fantasia e volare qui, su questa chiostra di bei monti[5], per accompagnarmi nel 1° giro apostolico, compiuto col mio predecessore R. P. Lanfranconi e in parte anche con Mons. Vescovo, fra i 35 villaggi affidati o piuttosto caduti, ohimè, nelle mie mani. Vorrei essere uno scrittore per la quale, per far gustare tutte le delizie che ho gustate io; ma son tali che intender non le può chi non le prova. –Debbo premettere che io non son mai stato un alpinista. L’alpenstock non ho mai saputo che diavolo sia. Gli scarponi chiodati li ho visti e calzati qui per la 1a  volta. Il mio stemma di famiglia è: Belacqua sdraiato per terra ai piedi d’una montagna, con sotto la scritta “L’andare in su che monta? “-Uccello di gabbia fin dalla nascita, è naturale che mi sia un po’ duro diventare uccel di bosco e scarpone da montagna.

Amo i monti, ma quando il sole li avvolge nel “mite, solitario, alto splendore” di un dolce meriggio o nel roseo delle sue aurore e dei suoi tramonti; non quando li dardeggia

rabbioso, sì da bocciarti ferocemente e liquefarti come cera e importi una meditazione empirica sul Purgatorio e magari sull’Inferno, allorché t’accoglie su strade brulle e mute d’aria o ti scalda entro un forno di cappella di legno dal tetto basso di zinco. Amo i monti, ma quando sono l’antitesi gioconda di quelle enormi scatole di cemento puzzanti di tanfo- come Mussolini definiva le grandi città- quando cioè i polmoni vi respirano aria pura e fresca e l’occhio si slarga a più vasti orizzonti; non quando vi scorre quest’atmosfera insalubre che nasconde l’insidia della malaria (o meglio Malaria, colla maiuscola, ché è mia intima amica, ora); non quando li fascia, immenso coltrone di morte, questa nebbia da bolge infernali che ti ficca nell’ossa l’umido e il tedio, che rischierebbe di farti smarrire il senso dell’essere[6] se non avessi lo spirito sempre illuminato dalla luce di Dio, - questa nebbia che stende su tutti gli oggetti –libri, abiti, selle, scarpe, a momenti anche la barba- quella lieve fioritura verde che si chiama muffa e che ha dovuto anch’essa concorrere, credo, a far qualificare di pittoresca la Birmania.

Amo i monti, quando riposano calmi nella loro solenne e suggestiva maestà, che ti dà come un senso della Maestà Divina. Come quando, inoltrato “infra l’ombrose piante d’antica selva”, nella più remota solitudine, ti senti come avvolto, sperduto in Dio, e lo stormir delle fronde ti pare il sussurro di Lui; e il mugolio dei torrenti e tutta l’orchestra georgica dei piccoli abitatori della foresta, massime all’ora del crepuscolo, pare un immenso inno di lode al Creatore. Ma quando questi monti sono squassati dal vento e inondati dalla pioggia interminabile, allora si che una gita apostolica quassù è veramente deliziosa. Specie se la ti coglie, per caso, fitta e impetuosa, quando ti trovi senza paracqua, il miglior partito è far di necessità virtù: andare avanti e godersela in quella rinfrescata. Tanto, sarà una magnifica doccia per il corpo e un bel bucatino per i panni. Sarà prolungata, forse, oltre il bisogno. Vi renderà da capo a piedi tutto un fradiciume e una grondaia d’acqua e di sudore. V’ammollirà e renderà un elmo di piombo il casco in testa. V’incollerà i capelli alla cotenna. Vi sciuperà e appiccicherà tutti i panni indosso, che quando li leverete sembreranno essere stati in molle. Ma non sarà che acqua, acqua, che vi terrà lontano ogni pericolo di morir di sete e vi ristorerà anche più d’un bagno, se ne avete bisogno. Per esempio, P. Del Signore trovavasi un giorno sulla via da Doroko(!=Dorokhò?) a Sado(!=Yadò?), ed era tutto inzuppato dalla testa alla vita per l’acqua dall’alto e dalla vita alla punta dei piedi per l’erbaccia alta inestricabile che attraversava. Fu tanto commosso per una gioia simile non mai provata, che cadde svenuto tre volte di seguito. Non c’era nessuno con lui. “Ebbene chi fu –egli mi scrive- che mi ristorò ai sensi e…alla gioia? Non altri che la benedetta sirocchia pioggia che mi batteva e batteva di santa ragione”. E’ vero che poi gli venne addosso un febbrone, che, stando a lui, ci volle D. Bosco a guarirlo. Ma quello fu un’altra cosa; venne dopo…Bisogna, dunque, se si ha un po’ di cuore, accettar con riconoscenza queste paterne lavate di testa da Giove Pluvio e prendere il taccuino e scrivere ogni volta, sotto dettatura di S. Francesco: “O Fra Pasquale, qui e in questo è perfetta letizia!” La pioggia –dice cristianamente l’ineffabile P. Bossi, un seguace di Di Ferrante in filosofia- la pioggia viene dal cielo. Ora ogni cosa che viene dal cielo non può essere che buona. Ergo, la conclusione la lascio a lui, per suo uso e consumo.

Se, però, son piuttosto rare queste benedizioni celesti, più frequente è il caso che vi conci a dovere la pioggia nei suoi effetti. Mi spiego. La mota, il fogliame marcito, gli acquitrini, le pozzanghere, son cose troppo comuni per far impressione a chi voglia far lo schizzinoso. Il bello è quando vi trovate di fronte a un torrente da passare. E torrenti ce n’è tutta una rete, in tempo di piogge, grandi e piccoli; e  il fragorio delle loro innumerevoli cascate, specie se confuso collo scroscio della pioggia e l’ululo del vento, dà a questi boschi montani un aspetto fantastico di orrida maestà.

Dicevo, dunque, se c’è una passerella di travi di legno, fortunati voi. Ma se àn buttato là due palancole di bambù un po’ troppo elastiche e che vi costringono a camminarvi su in posizione obliqua, con un parapetto, che guai a prenderlo sul serio, allora è meglio che vi raccomandiate prima l’anima. Se poi non c’è neanche questo, bisogna che vi soccorra qualche Gerione a traghettarvi sulle sue spalle, se ci riesce; e se no, rassegnatevi a guadare e sguazzare un po’ nell’acqua, ch’è un piacere. E sarà certo meno faticoso e goffo che affondare i piedi fino a mezzo metro in altri torrenti –veri torrenti- di fango, o in laghetti di melma quali diventano in campi di riso durante le piogge; sicché ci vuole del buono e del bello a levarne fuori la punta delle scarpe.

Ma il missionario –come Renzo quando faceva la via del ritorno a casa sua dopo tutti gli imbrogli e le traversie dei tristi anni passati- n’esce come può, senz’atti d’impazienza, senza parolacce (mancherebbe altro!), senza patimenti, pensando che ogni passo, per quanto costi, lo conduce avanti, -a qualche anima che l’aspetta per esser preparata al viaggio dell’eternità, o ad uno di questi villaggi che così di rado, tre o quattro volte l’anno, ricevono il conforto del Padre-; e poi, che la strada che fa intanto, tra poche ore sarà fatta. E finalmente dirà anche che il Missionario non ci pensa se non proprio quando non può far di meno. E’ ben altro ciò che lo assilla, che lo fa soffrire! Veder tanto male nel mondo, e troppo spesso, ahimè, non poter che piangere! Veder tante anime senza Dio, e poter fare sì poco, sì poco per loro!? Oh la grande miseria dell’uomo, di potere sì poco per coloro che si amano!

Ma torniamo a noi. Che bel divertimento e che garrule risate impertinenti dei ragazzi che per caso vi accompagnano, il vedervi camminare goffamente, con le gambe che fanno giacomo giacomo, sulla viscida melma, il terreno smottante della salite e delle discese! Anche se siete ben cauto ad afferrarvi a tutte le piante e gli sterpi che fiancheggiano il sentiero, non riuscirete a evitare sempre di dar qualche bacio violento alla madre terra, o di batter sul fondo e star…-In quanto alla compagnia, anche se vi manca quella degli uomini, state sicuri che non mancherà né a voi né al vostro cavallo quella di certe bestioline create apposta per questo scopo. Vedete queste zanzarine che si aggirano come punti per l’aria? Verranno inavvertite a succhiare il vostro sangue: alle mani, ai piedi anche calzati; e ve ne lasceranno su una gocciolina lustra lustra con un gonfiore esteso e dolore acuto. Furono i miei primi piccoli amici di quassù.

Non parlo delle zecche, che addirittura vi affondano la testolina nella carne, con quella tenacia che ormai è proverbiale. Taccio dei buoni tafani, il tormento classico per eccellenza dei cavalli e dei cavalieri. Sono addirittura un’infestazione al tempo delle piogge. Vi perseguono per tutto il tragitto a densi sciami, con una fedeltà che neanche i migliori amici di questo mondo. E’ inutile arrapinarsi a scacciarli. Bisogna dichiararsi impotenti. E guai se vi chinate, per esempio, ad allacciarvi le fasce disciolte e striscianti per terra! Vi prenderanno d’assalto la faccia in un attimo, non senza che alcuni restino intramagliati tra la fitta dei peli. Delle sanguisughe, poi, chi non ha sentito parlare? Assalgono, così alla chetichella, gli arti inferiori, riuscendo a infiltrarsi attraverso i minimi interstizi che trovano. Inutile premunirsi. Dov’entra l’aria entra la sanguisuga. Sale esile come un ago e se ne ricasca via rimpinzita come un bariletto, lasciando aperto un bel rigoletto rosso che voi magari osserverete per caso nello scalzarvi, al ritorno.

Che dire, finalmente, delle strade, durante e fuori del periodo delle piogge? Che sono un perfetto modello di autostrade, ecco tutto. Io credevo che il cavallo potesse prestare servizio su tutta la linea al Missionario, quassù; e invece ho trovato che la metà e più delle nostre escursioni bisogna compierle su un altro cavallo, quello di S. Francesco. Spesso la strada è una viuzza, un sentierucolo, una linea; a volte una forra scoscesa affondata nel fianco del monte. Ovvero non c’è una via affatto. E allora bisogna che ci sia qualcuno armato di dascè (un lungo coltello di cui va sempre munito il Cariano) il quale ti apra il varco attraverso il groviglio inestricabile di pruni, sterpi, erbacce, tronchi di bambù e di alberi abbattuti.

Bisogna, inoltre, ora più ora meno, sottomettersi, durante i viaggi,  a esercitazioni ginnastiche e liturgiche. Braccia, piedi, busto, testa, occhi, tutto dev’essere in continua, spesso simultanea, attività. Senz’alcun bisogno, dovete eseguire con frequenza e inappuntabilità inchini d’ogni specie, anche quelli non contemplati in liturgia, cioè profondissimi…E se avanzate sotto la pioggia coll’ombrello spiegato in una mano e la briglia nell’altra, avete anche occasione di far un po’ di scherma: punta in avanti, piega a destra, abbassa, alza, chiudi, riapri, capovolgi; e, in fine, valoroso l’ombrello che a furia specialmente di piroette se n’esce senza ferite! –Insomma vedete che non è proprio questo il tempo di far osservazioni astronomiche o elucubrazioni filosofiche. A meno che abbiate gusto a lasciarvi infilzare da qualche tronco appuntito sporgente sulla strada o che vi venga voglia di alleggerire il cavallo e lasciarlo avanti per i fatti suoi e voi restarvene come Assalonne inforcato tra i rami d’un albero. Oppure che vogliate imitare l’antico sapiente Talete che mentre vagava di notte pei campi, gli occhi in alto a scoprir le leggi degli astri, ruzzolò solennemente in un fossato, a rischio di scoprire le leggi dell’agrimensura…

Così, dopo una bella tiratina di due, tre,  quattro e, in certi casi eccezionali di visite a infermi, fin di sette o dieci ore, più o meno stracchi, arrembati, avvampati, arsi di sete, la testa acciocchita, sporchi –e perché non dirlo?- lerci, graveolenti di sudore, (o che, credevate che i sudori apostolici fossero una metafora? e magari odorosa?) come Dio vuole si perviene al villaggio da visitare. Il quale sarà talvolta piccolo piccolo, umanamente disprezzabile, non foss’altro che per il numero insignificante degli abitanti –il più grosso dei miei villaggi è su per giù di una ventina di famiglie; il più piccolo ne ha solo quattro- eppure sembra librato apposta in cima a un erto e faticoso colle, per farti sentire più al vivo il valore anche di un’anima sola dal sacrificio che ti costa il solo andare a visitarla. Talvolta, quando ci si arrampica così, trafelanti(!=trafelati?), accascati su certe balze più aspre e soleggiate, costretti certe volte ad afferrarsi alle radici sporgenti sul terreno per tirarsi su, si sarebbe tentati a pensare come D. Abbondio, quando attraversava, tutto appaurato, la valle dell’Innominato: “Oh, se fossi a casa mia!”. E quando, poi, si ridiscende uno di questi dilettosi monti e si dà uno sguardo alla via percorsa il giorno prima, si sarebbe quasi tentati di lanciare l’imprecazione di Renzo: ”Stà lì, maledetto paese!” Ma è, ripeto, la voce della natura che serve invece a rinfocolare la passione che ci ha fatto superare ben altri sacrifici pur di arrivare fin qui. Tuttavia, pensate che impressione deve farvi, imbattervi, durante un tragitto di questo genere, in una faccia da pelagatti di bonzaccio spurio dalla zucca rapata e lustra, adagiato con la prosopopea d’un semidio in una specie di lettiga di bambù portata a spalla da due suoi correligionari; e sentirvi rivolgere con un sorriso ironico la domanda provocante: “Ehi! dove andate?” quasi a dire: “Poveri sciocchi, che non sapete come noialtri sfruttare l’ingenuità della gente e rendervi comoda e onorata la vita!”

Ma lasciamo in pace tutti i bonzi e le bonzette della Birmania; ché tra poco avrò la gioia di presentarmi per la prima volta ai miei nuovi figli e dir loro –certo con più diritto che D. Abbondio a Lucia-: “Vedete, sono il vostro curato, venuto qui apposta per voi, da così lontano, e a cavallo!”

 

Euterpe e i suoi allievi in Birmania

Eccoci, dunque, alle vicinanze d’un villaggio. Ma –dirà qualche lettore- hai viaggiato da tante ore attraverso foreste vergini il cui solo pensiero ci fa tramare di paura per le cose di fuoco che n’abbiamo lette, e tu non ci parli neanche, che so io, d’un ruggito di tigre udito sia pure in lontananza?....

Eh! si, dovrei raccontarvi in verità quante volte son caduto in bocca alla tigre e come ci sono stato in corpo più a lungo che Giona nel ventre della balena, e solo per miracolo ne sono uscito sano e salvo! Ma ora non ho voglia di spaventar nessuno, e preferisco, piuttosto, farvi porger l’orecchio a questo chiasso sonoro che fluttua nell’aria assonnata e m’invita a rianimarmi e a raddrizzarmi un po’ bene sulla sella, che fa un tutt’altro vedere, direbbe il Manzoni.

Già, sono appunto i nostri che ci vengono incontro con la banda, starei per dire in festa. Ma non cominciate a immaginarvi cornette e clarinetti, ottavini e flauti, tromboni e serpentoni e bombardini e altri strumenti di cui non m’intendo. Un grosso tanburo bislungo, un gong (disco di metallo) e due piattini, bastano qui perché anche dei bambini ne sappiano trarre una cantilena semplicissima, invariabile, di tre note, che potrà esser ripetuta per ore e giornate senza mai sforzarvi l’attenzione per gustarla –come fanno purtroppo le nostre musiche- senza che anche il più abile musicista possa mai riuscire a trovarvi delle stonature. E, quel che più importa, fa rumore. Non sarà proprio armonia, ma è certo un bel clamore.

Qui ciò che importa è la quantità, non la qualità. Mondo nuovo, estetica nuova. E poi, del resto, se proprio non piace ai vostri dissueti orecchi, vi dirò che quel che manca ce lo mete il cuore. “Il cuore – diceva il Pascal – ha le sue ragioni che la ragione non comprende”. Io vorrei aggiungere ch’esso, certe volte, sente una musica che le orecchie non intendono. Tornando alla realtà, immaginate voi, allorché s’incontrano e s’incrociano le bande di due villaggi, quello di partenza e quello d’arrivo, e più quando vi si congiunge, invitata da lontano per l’occasione straordinaria della Visita Pastorale, una terza banda –ma questa numerosa e chic- di pifferi, immaginate che concerto anarchico, che guazzabuglio di clamori, e che dolcezza debba scender per gli orecchi al core! Allora si sente proprio che si è in festa! Ma il più bello è che questa buona gente vorrà per tutto il resto della santa giornata alimentare la gioia comune e più la vostra con questo genere di concerti. Se attentate di dar requie alle ossa scompigliate e vi stendete sulla stuoia appena siete un po’ riuscito a cadere nelle braccia di Morfeo, ecco i graditi concerti rompervi il sonno nella testa. E così, quando siete intento a conversare, a leggere, a pregare, a recitar il Breviario, ecc., eccovi gl’instancabili suonatori proprio lì sulla porta della Cappella, e si vede che àn la buona intenzione di suonarvi…sull’orecchio, se potessero, per esprimervi il loro affetto. Voi non direte nulla, per non offenderli. Ma pensate se quest’armonia non debba passarvi gli orecchi e discender più giù che al core, sino a darvi i bru[7]iti viscerali!...

Dicevo, però, che nelle occasioni solenni alle volte entra in iscena la fanfara dei pifferi, la quale su boscarecce inculte avene[8] è riuscita a imparare più di due marce di più di tre note ciascuna, di composizione di chi sa qual Mascagni Cariano. Ricordo quel brav’uomo di Dalokhi (!) che ci supplicò gli permettessimo –e l’ottenne- di offrirci un concerto del genere, addirittura in Cappella, a sera inoltrata. Io avevo deciso d’ingannare le mie povere orecchie immaginando forte qualche patetica o gioconda canzone napoletana, o qualche aria artistica di quelle sonate comm’il faut[9] nelle frequenti gare bandistiche della mia terra molle dilettosa e lieta. Ma ad esilararmi con un diletto non illusorio provvide il…direttore d’orchestra. Il quale, piantatosi in mezzo con un grottesco sussiego, colle mani picchiava un tamburello che poggiava sulla pancia, e coi piedi batteva il tempo; o meglio con tutta la persona. E, a seconda dei piano o dei forte, degli adagio o dei crescendo, ora accelerava arrabbiatamente i colpi di tamburo, ora li rallentava, fievoli e dolci; ora squassava energicamente la testa, ora ravvolgeva i discepoli in un solo sguardo fulmineo; ora accompagnava la marcia con certe vibrazioni che uscivano così in sordina, smozzicato fra i denti; ora atteggiava a certe grintacce orride e ora spianava in un grottesco sorriso la faccia brutta e screpolata che pareva un pezzo di pan da cani. O povera Euterpe –dicevo tra me, sbellicandomi dalle risa- in quali mani sei tu mai caduta!

A questa caratteristica figura di artista mancato mi è rimasta associata nella mente quell’altra del cantore, nonché  fabbriciere.


[1] Dante Alighieri, La Dvina Commedia – Inferno Canto VII

[2] Dante Alighieri, La Dvina Commedia – Canto XXIII

[3] Sacra Bibbia, Vecchio Testamento – Salmo 72, Versetto 23

[4] Dante Alighieri, La Divina Commedia – Inferno, Canto I

[5] Giosuè Carducci, “Alle fonti di Clitumno”

[6] il riferimento è a Martin Heidegger (1889 - 1976), il più importante filosofo del XX secolo;

[7] brontolii

[8] Torquato Tasso, “Gerusalemme Liberata”

[9] Francesismo= “come si deve”, “come conviene”