Non
scesi, no, precipitai di sella
Avanti!
Svelto! Non si aspetta che te! Vorrai portar sempre
la coda agli altri? – cominciò Pluto con la
voce chioccia[1]…
Pluto
in questo caso era il buon Menico (P. Barbieri, chi
non lo conosce?) che veniva a sollecitarmi mentre,
in attesa dell’auto, ero andato in istanza per la
terza volta a cercar qualche altra cosa, di quelle
che, dimenticate nell’agitazione della vigilia,
affiorano una per volta alla mente proprio
all’ultima ora e magari agli ultimi istanti.
-
Coraggio! Devi esser sempre il primo, invece, in
tutto! -aggiunse con delicatezza la voce amica,
subito sopraffatta dal frastuono cupo della macchina
fremente nell’impazienza di slanciarsi alla corsa.
In
poco più di un’ora siamo al fiume. Poi giù, a
tre per volta, nella
(! manca un pezzo di foglio) barca snelletta e
leggera: fermi, senza paura, ché un balzo malcauto
potrebbe capovolgerla! Ed eccoci all’altra riva,
in faccia ai monti che anch’io posso dir nostri,
finalmente; e i primi che ci si ergono davanti son
proprio i miei regni, come li chiamava il mio
predecessore e li chiamo anch’io adesso. I cavalli
son lì ad attenderci, seri, placidi, li diresti
consci della loro dignità di cavalli missionari.
Fuori
dal sacco la sella nuova e la briglia nuova! Faran
bella figura, lisce, lustre, accanto alle altre più
o meno decrepite, unte, annerite. Vedermi lì,
intanto che qualcuno venga a bardarmi il cavallo,
vedermi con in mano quelle nuove armi tanto
differenti da quelle usate per le…battaglie di
tavolino, ai piedi quelle pesanti scarpacce
chiodate, e attorno alle gambe quelle fasce
grigio-verdi, ricordi d’una vita militare –non
della guerra, però– mi sentivo un po’ in un
imbarazzo analogo a quello di Davide cinto il tenero
corpicciuolo di pastorello delle pesanti armature
guerresche. “Usum non habeo!” –Oh! povero
me,-dicevo- sono come un pulcino nella stoppa. Come
farò adesso a inforcar gli
arcioni?
e poi star su in bilico tante ore –sette, m’han
detto- senza andare a rompermi l’osso sacro e
tutte le costole e questi benedetti fanali, luce
degli occhi
miei?... Sarà almeno una bestia quieta? –domando
all’ex padrone del cavallo- Vizi non ne avrà?
Scherzi non ne farà?
E
certo avevo più motivo di D. Abbondio a far simili
domande, perché non potevo dire come lui di essere
un, sia pur povero, cavalcatore. Basta, il cielo me
la mandi buona –conclusi anch’io dopo tutte le
assicurazioni dell’ex padrone e i “va pur su di
buon animo” che mi venivano d’ogni parte. Così,
acciuffando forte forte la criniera, il piede
ficcato ben dentro nella staffa, arrampicandomi alla
sella –come D. Abbondio- sorretto dall’aiutante,
su, su, su, sono a cavallo finalmente! Ora sì che
mi par di sentirmi davvero missionario. Non fo per
dire, ma sono un cavaliere… a cavallo e non
soltanto un cavaliere dell’ideale! La carovana dei
12 Padri muove i primi passi, un dietro l’altro, -
“come i frati minori vanno per via”[2] –non cantando le letane, s’intende, bensì
tra scoppi d’ilarità capaci d’esilarare un D.
Abbondio cavalcante tra i brutti ceffi del castello
dell’Innominato. Io, però, benché non fossi
preso da malinconia, tuttavia non potevo non
apparire impacciato, timido e perfin goffo con
quella testa quasi rannicchiata tra le spalle, le
braccia aggranchite, il tronco ricurvo, le gambe
strette al ventre della bestia e le dita affondate
con tutta la forza nella criniera, sicché pareva
–diceva il mio P. Lanfranconi- stessi sollevando
una pianta! Che volete? il coraggio uno non se lo può
dare. Perciò mi diedi a chiedere ora all’uno ora
all’altro dei veterani, le prime lezioni
elementari di equitazione. Ma erano poco men che
inefficaci, perché tutte teoriche. E allora il mio
buon cavallo, accortosene, pensò di venirmi in
aiuto, dandomi una brusca ma efficacissima lezione
pratica a metodo sperimentale. Ecco come. Mi si
andava dicendo che se mai mi saltasse
il
ticchio di scendere un istante a misurar la strada,
stessi attento a vòtar
(!) la sella con un po’ d’eleganza; ché, oltre
all’essere goffo, sarebbe anche pericoloso restar
coi piedi ingarbugliati nelle staffe. Or avvenne
proprio di lì a poco che il cavallo, o perché
ombratosi per falso vedere, o perché intollerante
di sentirsi sulla groppa un peso più grave del
solito, o per significarmi che non accettava gli
scherzi e le carezze che gli andavo facendo, si
imbizzarrì e senza previo permesso si diede a
correre all’impazzata. La subitanea paura (la
paura, si sa, non ragiona) mi fece immaginare
imminente e inevitabile una caduta.
Allora,
ricordandomi della norma datami di fresco per il
caso, pensai a rendere almeno un po’…
cavalleresco il ruzzolone; e liberai svelto i piedi
dalle staffe. Ma, non so per qual simpatia
misteriosa che ci dev’essere tra i miei piedi e le
mie mani, anche queste istintivamente lasciarono la
briglia. E così, colui che fin allora era tanto
invanito agli onori di chi voleva perfino baciargli
i piedi, fu scaraventato, senza tanti riguardi, come
un ingombro pesante, là sul fango della strada, a
due metri di distanza, e da una bestia! Sic transit
gloria mundi!...
Ma a
parte la poesia, il fatto è che la caduta fu un
po’ troppo prosastica, perché andai a sbattere
violentemente l’anca su una sporgenza sassosa, che
mi fece sentire le delizie del suo contatto per
tutto il resto del viaggio e poi per più di due
settimane, impedendomi financo di alzarmi per la S.
Messa il giorno seguente. Vedete un po’ cosa
significhi perder le staffe! Che dev’essere,
poi, perdere quelle della propria testa? Che Dio mi
liberi sempre dall’una e dall’altra disgrazia! E
voglio anche imparare a non scherzar più colle
bestie: la troppa confidenza è sempre padrona della
mala creanza, mi diceva sempre mia madre.
T’amo
o pio cavallo!!
Ma
ora è passato il mio noviziato cavalleresco: una
prova come quella descritta è bastata a rendermi un
cavallerizzo senza macchia e senza paura, tale da
raccogliere elogi persin dal Vescovo. Il quale
soggiunse che quando cavalco
ho la maestà d’un imperatore e la solennità
ieratica d’un busto da altare…. Il mio cavallo,
poi continua le sue lezioni, ma ha cambiato
argomento. M’insegna la pazienza, la docilità, la
resistenza alle più dure fatiche. M’insegna a
farmi, perché no? come un cavallo presso Dio: ut
jumentum factus sum apud te…[3].
Quando lo guardo, ossia che avanzi, di passo o a
trotto col misurato
beccheggio
della testa, che pare l’espressione d’una
pazienza cosciente, e colla nobile giuba fluttuante,
o che s’inerpichi faticosamente su chine ripide,
ronchiose e sassose, su, su, su, trafelato, ansante,
fradicio di sudore che gli gronda a canaletti, misto
al sangue delle ferite aperte dalle sanguisughe e
dalle zecche; come non esser tentato a dirgli:
“T’amo o pio cavallo!” Come non esser tentato
a credere a quel che dice qualche bell’umore dei
nostri Padri: che dev’esserci un Paradiso anche
per i nostri cavalli? E’ vero che anch’esso ha i
suoi capricci, alle volte. Come quando ricalcitra
riluttante a vedersi innanzi la briglia che deve
costringergli la testa e il freno che deve masticare
per tutto il tragitto o come quando, sfinito,
s’impunta a non proseguire certe salite che, pare
vogliano tirarti fuori l’anima, e vuole ad ogni
costo che io lo liberi dal peso non insignificante
del mio corpo e, da buon compagno, provi un po’
anch’io com’è duro calle lo scendere e salir
per questi monti. Come non cedere allora di
buona voglia, povera bestia? E come non dargli
ragione quando, al sentire la secca schioppettata
che annunzia il nostro arrivo ad un villaggio, dà
un balzo, si sofferma e a me che lo sprono e lo
incoraggio, volge certi occhi che voglion dire:
“Ma, padroncino, le schioppettate non sono
confetti!” Così, quando la strada è sur un
rialto o un ciglione che rasenta –Dio me ne
liberi!- un precipizio, e il cavallo, come la mula
di D. Abbondio, “par che faccia a dispetto a tener
sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le
zampe sull’orlo, è inutile ostinarsi a “tirar
la briglia dall’altra parte e rodersi di stizza”
e imprecare alla bestia per quel suo “maledetto
gusto di andar a cercare i pericoli dove c’è
tanto sentiero”.
Il
miglior partito è imitar D. Abbondio: “lasciarsi
condurre a piacere altrui.”
A
dir la verità, tutte queste virtù, se posso
chiamarle così, non mi riescono tanto simpatiche,
attraenti, imitabili, come quella che mi sembra
la
più rilevante nel mio cavallo: la voracità.
Quantunque ben pasciuto poco prima d’intraprendere
un viaggio, non rifiuta mai i dolci inviti della
tenera erbetta e delle verdi foglie che gli
s’offrono allo sguardo, tanto più se lustre di
rugiada…. Sicché spesso, quando le soste
divengono troppo frequenti e la via lunga ne
sospinge, bisogna far il crudele e strapparlo
per forza dal ciuffo d’erba che si è chinato ad
abboccare col tremolio impaziente delle grandi froge
nere. Volete vedere fin dove arriva la ghiottoneria
della mia bestia? Pensate che, spinto da questa, mi
ha commesso, pochi giorni fa, due impertinenze, anzi
due veri peccati, forse mortali: si è accompagnato
con dei cavalli infedeli e dei protestanti (lui, il
cavallo missionario!) e se n’è andato a
scorazzare e mangiare il riso nei campi altrui. Lo
hanno preso, anche lui, e cacciato in gattabuia. Non
credete? Ebbene credete alla mia tasca cha dovuto
sborsare ½ rupia (£. 3,50!) per riscattarlo (e 80
ne spesi per comprarlo!) e altra ½ rupia per
riparare i danni al padrone…. Se fossi, però, un
buon Missionario, dovrei anche qui elevarmi a
mistiche considerazioni e imparare un’altra
voracità: quella di uno zelo,
“Che
mai non empie la bramosa voglia
E dopo il pasto ha più fame di pria.[4]
Ma
per ora debbo rassegnarmi a dover applicare a me,
purtroppo, il solo senso…gastrologico di
questi bei versi.
Di
qua, di là, di giù, di su….
Invito,
dunque, i miei lettori a procurarsi anche loro un
cavallo, o almeno a montare sull’ippogrifo della
fantasia e volare qui, su questa chiostra di bei
monti[5],
per accompagnarmi nel 1° giro apostolico, compiuto
col mio predecessore R. P. Lanfranconi e in parte
anche con Mons. Vescovo, fra i 35 villaggi affidati
o piuttosto caduti, ohimè, nelle mie mani. Vorrei
essere uno scrittore per la quale, per far gustare
tutte le delizie che ho gustate io; ma son tali che
intender non le può chi non le prova. –Debbo
premettere che io non son mai stato un alpinista. L’alpenstock
non ho mai saputo che diavolo sia. Gli scarponi
chiodati li ho visti e calzati qui per la 1a volta.
Il mio stemma di famiglia è: Belacqua sdraiato per
terra ai piedi d’una montagna, con sotto la
scritta “L’andare in su che monta?
“-Uccello di gabbia fin dalla nascita, è naturale
che mi sia un po’ duro diventare uccel di bosco e
scarpone da montagna.
Amo
i monti, ma quando il sole li avvolge nel “mite,
solitario, alto splendore” di un dolce meriggio o
nel roseo delle sue aurore e dei suoi tramonti; non
quando li dardeggia
rabbioso,
sì da bocciarti ferocemente e liquefarti come cera
e importi una meditazione empirica sul Purgatorio e
magari sull’Inferno, allorché t’accoglie su
strade brulle e mute d’aria o ti scalda entro un
forno di cappella di legno dal tetto basso di zinco.
Amo i monti, ma quando sono l’antitesi gioconda di
quelle enormi scatole di cemento puzzanti di
tanfo- come Mussolini definiva le grandi città-
quando cioè i polmoni vi respirano aria pura e
fresca e l’occhio si slarga a più vasti
orizzonti; non quando vi scorre quest’atmosfera
insalubre che nasconde l’insidia della malaria (o
meglio Malaria, colla maiuscola, ché è mia
intima amica, ora); non quando li fascia, immenso
coltrone di morte, questa nebbia da bolge infernali
che ti ficca nell’ossa l’umido e il tedio, che
rischierebbe di farti smarrire il senso
dell’essere[6]
se non avessi lo spirito sempre illuminato dalla
luce di Dio, - questa nebbia che stende su tutti gli
oggetti –libri, abiti, selle, scarpe, a momenti
anche la barba- quella lieve fioritura verde che si
chiama muffa e che ha dovuto anch’essa concorrere,
credo, a far qualificare di pittoresca la
Birmania.
Amo
i monti, quando riposano calmi nella loro solenne e
suggestiva maestà, che ti dà come un senso della
Maestà Divina. Come quando, inoltrato “infra
l’ombrose piante d’antica selva”, nella più
remota solitudine, ti senti come avvolto, sperduto
in Dio, e lo stormir delle fronde ti pare il
sussurro di Lui; e il mugolio dei torrenti e tutta
l’orchestra georgica dei piccoli abitatori della
foresta, massime all’ora del crepuscolo, pare un
immenso inno di lode al Creatore. Ma quando questi
monti sono squassati dal vento e inondati dalla
pioggia interminabile, allora si che una gita
apostolica quassù è veramente deliziosa. Specie se
la ti coglie, per caso, fitta e impetuosa, quando ti
trovi senza paracqua, il miglior partito è far di
necessità virtù: andare avanti e godersela in
quella rinfrescata. Tanto, sarà una magnifica
doccia per il corpo e un bel bucatino per i panni.
Sarà prolungata, forse, oltre il bisogno. Vi renderà
da capo a piedi tutto un fradiciume e una grondaia
d’acqua e di sudore. V’ammollirà e renderà un
elmo di piombo il casco in testa. V’incollerà i
capelli alla cotenna. Vi sciuperà e appiccicherà
tutti i panni indosso, che quando li leverete
sembreranno essere stati in molle. Ma non sarà che
acqua, acqua, che vi terrà lontano ogni pericolo di
morir di sete e vi ristorerà anche più d’un
bagno, se ne avete bisogno. Per esempio, P. Del
Signore trovavasi un giorno sulla via da Doroko(!=Dorokhò?)
a Sado(!=Yadò?), ed
era tutto inzuppato dalla testa alla vita per
l’acqua dall’alto e dalla vita alla punta dei
piedi per l’erbaccia alta inestricabile che
attraversava. Fu tanto commosso per una gioia simile
non mai provata, che cadde svenuto tre volte di
seguito. Non c’era nessuno con lui. “Ebbene chi
fu –egli mi scrive- che mi ristorò ai sensi
e…alla gioia? Non altri che la benedetta sirocchia
pioggia che mi batteva e batteva di santa
ragione”. E’ vero che poi gli venne addosso un
febbrone, che, stando a lui, ci volle D. Bosco a
guarirlo. Ma quello fu un’altra cosa; venne
dopo…Bisogna, dunque, se si ha un po’ di cuore,
accettar con riconoscenza queste paterne lavate di
testa da Giove Pluvio e prendere il taccuino e
scrivere ogni volta, sotto dettatura di S.
Francesco: “O Fra Pasquale, qui e in questo è
perfetta letizia!” La pioggia –dice
cristianamente l’ineffabile P. Bossi, un seguace
di Di Ferrante in filosofia- la pioggia viene dal
cielo. Ora ogni cosa che viene dal cielo non può
essere che buona. Ergo, la conclusione la lascio a
lui, per suo uso e consumo.
Se,
però, son piuttosto rare queste benedizioni
celesti, più frequente è il caso che vi conci a
dovere la pioggia nei suoi effetti. Mi spiego. La
mota, il fogliame marcito, gli acquitrini, le
pozzanghere, son cose troppo comuni per far
impressione a chi voglia far lo schizzinoso. Il
bello è quando vi trovate di fronte a un torrente
da passare. E torrenti ce n’è tutta una rete, in
tempo di piogge, grandi e piccoli; e
il fragorio delle loro innumerevoli cascate,
specie se confuso collo scroscio della pioggia e
l’ululo del vento, dà a questi boschi montani un
aspetto fantastico di orrida maestà.
Dicevo,
dunque, se c’è una passerella di travi di legno,
fortunati voi. Ma se àn buttato là due palancole
di bambù un po’ troppo elastiche e che vi
costringono a camminarvi su in posizione obliqua,
con un parapetto, che guai a prenderlo sul serio,
allora è meglio che vi raccomandiate prima
l’anima. Se poi non c’è neanche questo, bisogna
che vi soccorra qualche Gerione a traghettarvi sulle
sue spalle, se ci riesce; e se no, rassegnatevi a
guadare e sguazzare un po’ nell’acqua, ch’è
un piacere. E sarà certo meno faticoso e goffo che
affondare i piedi fino a mezzo metro in altri
torrenti –veri torrenti- di fango, o in laghetti
di melma quali diventano in campi di riso durante le
piogge; sicché ci vuole del buono e del bello a
levarne fuori la punta delle scarpe.
Ma
il missionario –come Renzo quando faceva la via
del ritorno a casa sua dopo tutti gli imbrogli e le
traversie dei tristi anni passati- n’esce come può,
senz’atti d’impazienza, senza parolacce
(mancherebbe altro!), senza patimenti, pensando che
ogni passo, per quanto costi, lo conduce avanti, -a
qualche anima che l’aspetta per esser preparata al
viaggio dell’eternità, o ad uno di questi
villaggi che così di rado, tre o quattro volte
l’anno, ricevono il conforto del Padre-; e poi,
che la strada che fa intanto, tra poche ore
sarà fatta. E finalmente dirà anche che il
Missionario non ci pensa se non proprio quando non
può far di meno. E’ ben altro ciò che lo
assilla, che lo fa soffrire! Veder tanto male
nel mondo, e troppo spesso, ahimè, non poter che
piangere! Veder tante anime senza Dio, e poter fare
sì poco, sì poco per loro!? Oh la grande miseria
dell’uomo, di potere sì poco per coloro che si
amano!
Ma
torniamo a noi. Che bel divertimento e che garrule
risate impertinenti dei ragazzi che per caso vi
accompagnano, il vedervi camminare goffamente, con
le gambe che fanno giacomo giacomo, sulla viscida
melma, il terreno smottante della salite e delle
discese! Anche se siete ben cauto ad afferrarvi a
tutte le piante e gli sterpi che fiancheggiano il
sentiero, non riuscirete a evitare sempre di dar
qualche bacio violento alla madre terra, o di
batter sul fondo e star…-In quanto alla
compagnia, anche se vi manca quella degli uomini,
state sicuri che non mancherà né a voi né al
vostro cavallo quella di certe bestioline create
apposta per questo scopo. Vedete queste zanzarine
che si aggirano come punti per l’aria? Verranno
inavvertite a succhiare il vostro sangue: alle mani,
ai piedi anche calzati; e ve ne lasceranno su una
gocciolina lustra lustra con un gonfiore esteso e
dolore acuto. Furono i miei primi piccoli amici di
quassù.
Non
parlo delle zecche, che addirittura vi affondano la
testolina nella carne, con quella tenacia che ormai
è proverbiale. Taccio dei buoni tafani, il tormento
classico per eccellenza dei cavalli e dei cavalieri.
Sono addirittura un’infestazione al tempo delle
piogge. Vi perseguono per tutto il tragitto a densi
sciami, con una fedeltà che neanche i migliori
amici di questo mondo. E’ inutile arrapinarsi a
scacciarli. Bisogna dichiararsi impotenti. E guai se
vi chinate, per esempio, ad allacciarvi le fasce
disciolte e striscianti per terra! Vi prenderanno
d’assalto la faccia in un attimo, non senza che
alcuni restino intramagliati tra la fitta dei peli.
Delle sanguisughe, poi, chi non ha sentito parlare?
Assalgono, così alla chetichella, gli arti
inferiori, riuscendo a infiltrarsi attraverso i
minimi interstizi che trovano. Inutile premunirsi.
Dov’entra l’aria entra la sanguisuga. Sale esile
come un ago e se ne ricasca via rimpinzita come un
bariletto, lasciando aperto un bel rigoletto rosso
che voi magari osserverete per caso nello scalzarvi,
al ritorno.
Che
dire, finalmente, delle strade, durante e fuori del
periodo delle piogge? Che sono un perfetto modello
di autostrade, ecco tutto. Io credevo che il cavallo
potesse prestare servizio su tutta la linea al
Missionario, quassù; e invece ho trovato che la metà
e più delle nostre escursioni bisogna compierle su
un altro cavallo, quello di S. Francesco. Spesso la
strada è una viuzza, un sentierucolo, una linea; a
volte una forra scoscesa affondata nel fianco del
monte. Ovvero non c’è una via affatto. E allora
bisogna che ci sia qualcuno armato di dascè (un
lungo coltello di cui va sempre munito il Cariano)
il quale ti apra il varco attraverso il groviglio
inestricabile di pruni, sterpi, erbacce, tronchi di
bambù e di alberi abbattuti.
Bisogna,
inoltre, ora più ora meno, sottomettersi, durante i
viaggi, a
esercitazioni ginnastiche e liturgiche. Braccia,
piedi, busto, testa, occhi, tutto dev’essere in
continua, spesso simultanea, attività. Senz’alcun
bisogno, dovete eseguire con frequenza e
inappuntabilità inchini d’ogni specie, anche
quelli non contemplati in liturgia, cioè
profondissimi…E se avanzate sotto la pioggia
coll’ombrello spiegato in una mano e la briglia
nell’altra, avete anche occasione di far un po’
di scherma: punta in avanti, piega a destra,
abbassa, alza, chiudi, riapri, capovolgi; e, in
fine, valoroso l’ombrello che a furia specialmente
di piroette se n’esce senza ferite! –Insomma
vedete che non è proprio questo il tempo di far
osservazioni astronomiche o elucubrazioni
filosofiche. A meno che abbiate gusto a lasciarvi
infilzare da qualche tronco appuntito sporgente
sulla strada o che vi venga voglia di alleggerire il
cavallo e lasciarlo avanti per i fatti suoi e voi
restarvene come Assalonne inforcato tra i rami
d’un albero. Oppure che vogliate imitare
l’antico sapiente Talete che mentre vagava di
notte pei campi, gli occhi in alto a scoprir le
leggi degli astri, ruzzolò solennemente in un
fossato, a rischio di scoprire le leggi
dell’agrimensura…
Così,
dopo una bella tiratina di due, tre,
quattro e, in certi casi eccezionali di
visite a infermi, fin di sette o dieci ore, più o
meno stracchi, arrembati, avvampati, arsi di sete,
la testa acciocchita, sporchi –e perché non
dirlo?- lerci, graveolenti di sudore, (o che,
credevate che i sudori apostolici fossero una
metafora? e magari odorosa?) come Dio vuole si
perviene al villaggio da visitare. Il quale sarà
talvolta piccolo piccolo, umanamente disprezzabile,
non foss’altro che per il numero insignificante
degli abitanti –il più grosso dei miei villaggi
è su per giù di una ventina di famiglie; il più
piccolo ne ha solo quattro- eppure sembra librato
apposta in cima a un erto e faticoso colle,
per farti sentire più al vivo il valore anche di
un’anima sola dal sacrificio che ti costa il solo
andare a visitarla. Talvolta, quando ci si arrampica
così, trafelanti(!=trafelati?),
accascati su certe balze più aspre e soleggiate,
costretti certe volte ad afferrarsi alle radici
sporgenti sul terreno per tirarsi su, si sarebbe
tentati a pensare come D. Abbondio, quando
attraversava, tutto appaurato, la valle
dell’Innominato: “Oh, se fossi a casa mia!”. E
quando, poi, si ridiscende uno di questi dilettosi
monti e si dà uno sguardo alla via percorsa il
giorno prima, si sarebbe quasi tentati di lanciare
l’imprecazione di Renzo: ”Stà lì, maledetto
paese!” Ma è, ripeto, la voce della natura che
serve invece a rinfocolare la passione che ci ha
fatto superare ben altri sacrifici pur di arrivare
fin qui. Tuttavia, pensate che impressione deve
farvi, imbattervi, durante un tragitto di questo
genere, in una faccia da pelagatti di bonzaccio
spurio dalla zucca rapata e lustra, adagiato con la
prosopopea d’un semidio in una specie di lettiga
di bambù portata a spalla da due suoi
correligionari; e sentirvi rivolgere con un sorriso
ironico la domanda provocante: “Ehi! dove
andate?” quasi a dire: “Poveri sciocchi, che non
sapete come noialtri sfruttare l’ingenuità della
gente e rendervi comoda e onorata la vita!”
Ma
lasciamo in pace tutti i bonzi e le bonzette della
Birmania; ché tra poco avrò la gioia di
presentarmi per la prima volta ai miei nuovi figli e
dir loro –certo con più diritto che D. Abbondio a
Lucia-: “Vedete, sono il vostro curato, venuto qui
apposta per voi, da così lontano, e a cavallo!”
Euterpe
e i suoi allievi in Birmania
Eccoci,
dunque, alle vicinanze d’un villaggio. Ma –dirà
qualche lettore- hai viaggiato da tante ore
attraverso foreste vergini il cui solo pensiero ci
fa tramare di paura per le cose di fuoco che
n’abbiamo lette, e tu non ci parli neanche, che so
io, d’un ruggito di tigre udito sia pure in
lontananza?....
Eh!
si, dovrei raccontarvi in verità quante volte son
caduto in bocca alla tigre e come ci sono stato in
corpo più a lungo che Giona nel ventre della
balena, e solo per miracolo ne sono uscito sano e
salvo! Ma ora non ho voglia di spaventar nessuno, e
preferisco, piuttosto, farvi porger l’orecchio a
questo chiasso sonoro che fluttua nell’aria
assonnata e m’invita a rianimarmi e a raddrizzarmi
un po’ bene sulla sella, che fa un tutt’altro
vedere, direbbe il Manzoni.
Già,
sono appunto i nostri che ci vengono incontro con la
banda, starei per dire in festa. Ma non cominciate a
immaginarvi cornette e clarinetti, ottavini e
flauti, tromboni e serpentoni e bombardini e altri
strumenti di cui non m’intendo. Un grosso tanburo
bislungo, un gong (disco di metallo) e due piattini,
bastano qui perché anche dei bambini ne sappiano
trarre una cantilena semplicissima, invariabile, di
tre note, che potrà esser ripetuta per ore e
giornate senza mai sforzarvi l’attenzione per
gustarla –come fanno purtroppo le nostre musiche-
senza che anche il più abile musicista possa mai
riuscire a trovarvi delle stonature. E, quel che più
importa, fa rumore. Non sarà proprio armonia, ma è
certo un bel clamore.
Qui
ciò che importa è la quantità, non la qualità.
Mondo nuovo, estetica nuova. E poi, del resto, se
proprio non piace ai vostri dissueti orecchi, vi dirò
che quel che manca ce lo mete il cuore. “Il cuore
– diceva il Pascal – ha le sue ragioni che la
ragione non comprende”. Io vorrei aggiungere
ch’esso, certe volte, sente una musica che le
orecchie non intendono. Tornando alla realtà,
immaginate voi, allorché s’incontrano e
s’incrociano le bande di due villaggi, quello di
partenza e quello d’arrivo, e più quando vi si
congiunge, invitata da lontano per l’occasione
straordinaria della Visita Pastorale, una terza
banda –ma questa numerosa e chic- di pifferi,
immaginate che concerto anarchico, che guazzabuglio
di clamori, e che dolcezza debba scender per gli
orecchi al core! Allora si sente proprio che si è
in festa! Ma il più bello è che questa buona gente
vorrà per tutto il resto della santa giornata
alimentare la gioia comune e più la vostra con
questo genere di concerti. Se attentate di dar
requie alle ossa scompigliate e vi stendete sulla
stuoia appena siete un po’ riuscito a cadere nelle
braccia di Morfeo, ecco i graditi concerti rompervi
il sonno nella testa. E così, quando siete
intento a conversare, a leggere, a pregare, a
recitar il Breviario, ecc., eccovi gl’instancabili
suonatori proprio lì sulla porta della Cappella, e
si vede che àn la buona intenzione di
suonarvi…sull’orecchio, se potessero, per
esprimervi il loro affetto. Voi non direte nulla,
per non offenderli. Ma pensate se quest’armonia
non debba passarvi gli orecchi e discender più giù
che al core, sino a darvi i bru[7]iti
viscerali!...
Dicevo,
però, che nelle occasioni solenni alle volte entra
in iscena la fanfara dei pifferi, la quale su boscarecce
inculte avene[8]
è riuscita a imparare più di due marce di più di
tre note ciascuna, di composizione di chi sa qual
Mascagni Cariano. Ricordo quel brav’uomo di
Dalokhi (!) che ci supplicò gli permettessimo –e
l’ottenne- di offrirci un concerto del genere,
addirittura in Cappella, a sera inoltrata. Io avevo
deciso d’ingannare le mie povere orecchie immaginando
forte qualche patetica o gioconda canzone
napoletana, o qualche aria artistica di quelle
sonate comm’il faut[9]
nelle frequenti gare bandistiche della mia terra molle
dilettosa e lieta. Ma ad esilararmi con un
diletto non illusorio provvide il…direttore
d’orchestra. Il quale, piantatosi in mezzo con un
grottesco sussiego, colle mani picchiava un
tamburello che poggiava sulla pancia, e coi piedi
batteva il tempo; o meglio con tutta la persona. E,
a seconda dei piano o dei forte, degli
adagio o dei crescendo, ora accelerava
arrabbiatamente i colpi di tamburo, ora li
rallentava, fievoli e dolci; ora squassava
energicamente la testa, ora ravvolgeva i discepoli
in un solo sguardo fulmineo; ora accompagnava la
marcia con certe vibrazioni che uscivano così in
sordina, smozzicato fra i denti; ora atteggiava a
certe grintacce orride e ora spianava in un
grottesco sorriso la faccia brutta e screpolata che
pareva un pezzo di pan da cani. O povera Euterpe
–dicevo tra me, sbellicandomi dalle risa- in quali
mani sei tu mai caduta!
A
questa caratteristica figura di artista mancato mi
è rimasta associata nella mente quell’altra del
cantore, nonché
fabbriciere.
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