MONS. ANTONIO BAROSI
(23 novembre 1901 - 19 novembre 1941)

 Un piccolo chierichetto biondo, sull'altare, osserva, con gli occhi sgranati, la Messa solenne celebrata da mons. Geremia Bonomelli: assorto nei suoi pensieri, scruta i movimenti del grande vescovo cremonese vestito con i paramenti delle grandi occasioni... chissà cosa passa per la testa di questo ragazzino!

Antonio Barosi, nato il 23 novembre 1901 a Solarolo Rainerio e trasferitosi a Cremona, con la famiglia, nel 1912, tante volte serve la Messa nella cattedrale e altrettante rimane conquistato dal fascino del ministero sacerdotale. Non lascia, perciò, trascorrere molto tempo e nel 1913 entra nel Seminario diocesano, convinto di diventare sacerdote al servizio della sua diocesi. Ma, dopo la prima liceo, Tonino sente parlare del cremonese p. Silvio Pasquali di Picenengo, missionario in India, e rimane affascinato da questa nuova figura che si affaccia nella sua vita.

Così, il 27 settembre 1919, decide di continuare la sua preparazione al sacerdozio nel Seminario per le Missioni Estere di Milano, dove presto lo seguono i suoi compagni Luigi Martinelli e Angelo Corbani, poi missionari, il primo in Bengala, il secondo in India.

Finalmente, nel 1925, viene ordinato sacerdote e il 5 ottobre riceve il crocifisso di missionario dall'arcivescovo di Milano, cardinal Eugenio Tosi. Il giorno dopo salpa per la Cina. Due mesi e diciotto giorni di viaggio, sui mezzi più disparati. Partito da Genova, su un bastimento tedesco, sbarca ad Hong Kong alla fine di ottobre, quindi raggiunge Shanghai e di lì, in quattro giorni di navigazione sul Fiume Azzurro, raggiunge Hankou. Finalmente da Hankou, dopo una giornata e mezza di treno e cinque giorni di carro cinese, è a Jingang, centro della sua futura missione. «Due mesi e diciotto giorni di viaggio! Quanti paesi ho attraversato senza mai vedere una croce! Qui voglio consumare la mia vita per l'avventura del Regno di Dio!», queste le prime parole pronunciate dal giovane p. Antonio al suo arrivo in Cina.

Due mesi di studio della lingua cinese e poi, ancora disorientato e inesperto, viene mandato nel distretto di Dengxian, come coadiutore di p. Massa: è incaricato di assistere gli alunni della scuola cattolica, questi l'aiuteranno a imparare più in fretta il cinese, che ancora balbetta appena.

Ma oltre ai disagi della lingua e dell'ambientamento, subito si deve scontrare con la dura realtà del comunismo cinese. Infatti scrive, nell'ottobre 1927, ai seminaristi di Cremona: «Il luglio scorso le truppe rosse sono entrate vittoriose nella nostra provincia del Henan, il nostro vicariato è stato il primo a essere invaso da più di 70 mila soldati senza ordine e senza regola. Le nostre chiese e case furono tutte occupate dai soldati, anche la nostra di Dengxian è stata occupata e per noi soltanto due stanze: un mese e cinque giorni di convivenza con quei briganti che non sapevano far altro che insultare e gridare "a morte lo straniero". Questa truppa, diretta verso Zhumadian, sulla ferrovia, si diresse poi a Kaifeng, capitale della provincia, che in pochi giorni fu assediata e occupata. Il nuovo regime si è fatto ben presto sentire ovunque. Scuole proibite alla Chiesa cattolica. Anche la nostra, chiusi i vasti locali appena fabbricati e requisiti dai soldati, è trasformata in caserma. Così anche nelle altre residenze del vicariato abbiamo soldati. Evviva il socialismo... Da Kaifeng, poi, sono stati mandati i propagandisti del "sole dell'avvenire". Al loro arrivo hanno tappezzato tutti i muri di manifesti, molti dei quali contro di noi: contro la nostra religione, e contro gli schiavi degli stranieri (i cristiani). Dopo l'entrata del nuovo regime, non possiamo uscire senza sentirci insultati, maledetti e derisi. Il nostro ministero è molto intralciato, noi qua siamo ancora tutti al nostro posto e ci staremo fino a che non ci manderanno via o ci uccideranno. Non vi nego che c'è da soffrire. Ma non vi nego pure che il Signore sa sostenere e aiutare. Speriamo che il Signore ci conceda un po' di pace e tranquillità in mezzo a tanta babilonia per poter fare un po' di bene; se non altro sostenere i cristiani affinché non vengano meno alla fede ricevuta. Dirvi quando potrà finire questo caos è difficile: sono troppi i pretenziosi, tutti egoisti. Tutti dicono di venire a salvare la patria, mentre troppo chiaro si vede che lavorano per arricchirsi e farsi una fama. Tutti questi capi, però, si trovano d'accordo su un punto: allontanare dalla Cina lo straniero».

Dopo un anno le cose sembrano tornare alla normalità, ma, nell'inverno 1928-29 scoppia una grande carestia nel Henan: «Da dieci mesi non piove, in primavera e in autunno non si è raccolto nulla. Qui, a Dengxian, p. Massa e io abbiamo pensato di aprire ai più affamati i locali della scuola, ora abbandonata dai comunisti. Misurando le nostre forze non volevamo raccoglierne più di una trentina... ma, aperta la porta, chi la può richiudere? Ora ne abbiamo un centinaio e più. Le nostre risorse, però, sono terminate, quindi abbiamo messo l'affare nelle mani della Provvidenza, e con questa fiducia tiriamo avanti».

P. Barosi si dà un gran da fare e riesce a ottenere una buona quantità di grano dal paesino cattolico. Il ventisettenne Tonino comincia, così, a rivelare le sue doti di organizzatore e diplomatico. Ma è proprio quando a nulla può servire la diplomazia, che p. Barosi dimostra la qualità della sua fede. Infatti il 9 febbraio 1929 giunge a Dengxian una grossa banda di briganti che sottopone a crudeli sevizie i ricchi della città, nella speranza di poter ottenere grosse somme di denaro... e tutto ciò sotto gli occhi dei padri, minacciati dello stesso trattamento se non pagano in contanti. Il mattino seguente, all'avvicinarsi dei soldati regolari, la banda cerca di raggiungere i suoi rifugi sui monti, trascinando con sé tremila ostaggi e i due missionari, legati e costretti a camminare in mezzo ai cavalli scalpitanti. P. Massa e p. Barosi si vedono ormai perduti. Invece, durante la violenta battaglia che oppone i briganti alle truppe regolari, nella confusione generale, riescono a liberarsi dalle funi e a nascondersi. Terminati i combattimenti, stremati e impauriti, passando tra i cadaveri abbandonati sulla strada, riescono a mettersi in salvo.

Ma sembra che per p. Barosi non ci sia mai pace. «Dopo essere stato preso dai briganti, rimasi ancora nel distretto di Dengxian fino ai primi di maggio, sono dovuto poi tornare a Kaifeng, nella residenza vescovile, perché nel mio ultimo giro di missione mi presi il vaiolo. Guarito, già stavo preparando i miei tre stracci per ritornare al mio distretto, quando il vescovo decise di cambiarmi incarico... non volevo accettare tanto delicato ufficio, ma alla fine, confidando nel Signore, ubbidii. Ora sono qui da dieci mesi. Ho bisogno di un grande aiuto del Signore, per portare la mia croce non troppo leggera».

E' nominato, infatti, economo di Nanyang, la missione più importante della provincia, deve cioè «amministrare quanto non è mai necessario neppure ai bisogni più urgenti». A lui fanno capo i cristiani per le loro questioni, i catechisti per rifornirsi di libri e sussidi didattici, i padri per tutto l'occorrente delle residenze, scuole e chiese. Deve badare ai coloni che coltivano i pochi terreni della missione, ai muratori e agli artigiani che lavorano in questa o quella stazione. Deve pensare al pane quotidiano per gli orfani e alla loro educazione, alle suore addette alla cucina, al guardaroba, all'assistenza dei ricoverati, alla direzione delle scuole femminili. Inoltre è l'economo del seminario.

Ma tutto questo non basta: deve provvedere vitto e alloggio per i soldati di passaggio e foraggio per le loro bestie. Dagli agenti governativi, che pretendono il pagamento di tasse e dazi assurdi, deve lasciarsi "alleggerire" il meno possibile. Non è mai imbarazzato. Non si spaventa neppure di fronte alle immense necessità della sua gente, né davanti alla cronica mancanza di fondi, anzi, sembra che siano proprio le difficoltà a stimolarlo nel tentare l'impossibile. P. Barosi ha appena assunto il nuovo incarico, nell'estate del 1929, che già progetta di costruire una nuova scuola, e questo nonostante la missione debba affrontare notevoli problemi finanziari e fare i conti con la persecuzione accanita contro "tutto ciò che sa di Chiesa cattolica". E sempre nello stesso momento, che noi, umanamente, giudicheremmo inopportuno, si decide di: «aprire nella nostra residenza principale di Jingang, unica non occupata dai soldati, una scuola-collegio, che raccogliesse i nostri giovani dei distretti desiderosi di studiare. Non c'era da pensarci due volte, e senza tener conto delle difficoltà, si diede principio alla tanto desiderata scuola». Gli inizi sono modesti: casette cinesi adattate, arredamento riciclato, tavoli e sgabelli sgangherati. Ma, con il passare degli anni, la scuola raggiunge un buon livello, sia per il numero degli alunni che per la qualità dell'insegnamento impartito, tanto che il vescovo decide di rinnovarne completamente le strutture, per renderle più adatte alle nuove esigenze.

Dunque è un successo, tanto che le tre università cattoliche di Pechino, Tianjin e Shanghai si impegnano ad ammettere senza esami gli alunni della Scuola Volonteri, così chiamata in onore del primo vescovo di Nanyang, mons. Simeone Volonteri. Tutto, perciò, sembra procedere a gonfie vele, eppure la situazione non è poi così rosea. Il 18 gennaio 1931 p. Barosi scrive ai seminaristi cremonesi: «Sono tre anni che facciamo una vita sempre con una tensione di nervi che se non ci fosse stato un aiuto tutto speciale del Signore, certo saremmo già fuori uso. Sapranno quanti dei nostri confratelli furono portati in prigionia dai briganti e quanti trucidati. Ma purtroppo non è terminata la storia! Si vive alla giornata confidando nel Signore; anche noi qui a Jingang si è sempre circondati da briganti, tutte le notti si deve vegliare per timore di essere assaliti all'improvviso; senza poi parlare delle angherie che continuamente i soldati e i capi della città ci fanno in guanti gialli. Questo lo dico non per spoetizzare la vita missionaria, ma perché sappiate in che condizioni ci troviamo e possiate con più ardore pregare il cuore eucaristico di Gesù per un po' di pace e tranquillità su questa povera Cina. Però, nonostante questi trambusti e prove, il Signore ci consola e ci benedice nell'opera nostra».

Uomo dalle mille capacità, si deve continuamente impegnare in nuove mansioni. Sembra infaticabile e il pro-vicario apostolico mons. Pietro Massa, conoscendo la sua grande disponibilità, nel 1936 gli affida un ulteriore incarico: «L'anno scorso il vescovo mi chiama e mi dice: "Caro padre, so che è già molto occupato, ma, cosa vuole, mi faccia un vero favore: diriga, in qualità di vicario foraneo, le tre sottoprefetture occidentali (un'estensione come mezza Lombardia)". Come si può dire di no? Anzi, proprio in questi giorni sto per mettermi a cavallo di un mulo e fare il giro del mio vicariato. Oltre a questo "poco" da fare, quest'anno ho anche la direzione della costruzione della cattedrale della città di Nanyang. Come vedete anche ingegnere, capomastro e manovale. Qui si diventa laureati in tutte le scienze. Voi penserete: "Come fa a seguire tante cose?". Si fa tutto quello che si può. E' certo che non si fanno le cose a perfezione. Cosa si potrebbe fare se ci fosse qualche sacerdote in più! Si comincia la giornata alle quattro del mattino e la si finisce alle dieci della sera. Senza contare le peripezie e i viaggi da fare».

Intanto l'obbedienza spinge p. Barosi ad assumersi sempre nuove e più grandi responsabilità. Infatti, nel 1939, il nuovo vescovo Pietro Massa, suo primo parroco in Cina, lo nomina pro-vicario apostolico, ben sapendo che il suo antico coadiutore di Dengxian ha le spalle robuste. E il padre Antonio comincia a sostituire il vescovo durante le sue assenze, sbrigando la corrispondenza con Roma e Milano, curando le relazioni con le autorità locali, vigilando sul seminario, sulle attività pastorali, sull'orfanotrofio.

Ma non basta ancora. A p. Barosi sono riservate ancora maggiori responsabilità in più vasto campo di lavoro. Dopo 45 anni di missione, mons. Giuseppe Tacconi, vicario apostolico del Henan Orientale, chiede alla Santa Sede che il vicariato, da lui fondato nel 1916, sia affidato a qualcuno più giovane di lui. Roma, accogliendo la domanda, nella primavera del 1940 nomina p. Antonio Barosi amministratore apostolico di Kaifeng, capitale del Henan e centro della missione, aspettando tempi migliori per eleggere il nuovo vescovo. Ancora una volta p. Tonino obbedisce.

Mons. Barosi, però, a causa della difficoltà di comunicazioni non può raggiungere subito la nuova sede. Per recarsi a Kaifeng, deve attraversare il nuovo vasto letto del Fiume Giallo e passare dal territorio in mano ai cinesi a quello occupato dai giapponesi. Infatti questo vicariato è diviso in due dalle acque e dal fronte di guerra: passare dall'una all'altra parte non solo è difficile e pericoloso, ma pressoché impossibile. Solo dopo due mesi, per opera di p. Vitali, missionario di Kaifeng, conosciutissimo dalle autorità cinesi militari e civili delle due sponde, Barosi può mettersi in viaggio per raggiungere la sua nuova destinazione.

Il suo primo impegno è quello di visitare tutti i distretti posti sotto la sua giurisdizione, per avere una visione completa delle comunità cristiane presenti, consolarle, incoraggiarle e riorganizzarle, dove necessario.

Nel novembre 1941 a mons. Barosi non rimane da visitare che il distretto di Dingcunji, situato a sud della città di Luyi, quasi totalmente sommerso dalle acque del Fiume Giallo che quell'anno, a causa delle violente piogge estive, aveva addirittura cambiato il percorso e formato un lago dalle acque basse e limacciose di parecchi chilometri quadrati.

I giapponesi si sono spinti tre volte fino a Dingcunji, ma si sono sempre ritirati; al contrario i soldati cinesi sono riusciti ad avere il controllo permanente del territorio. Dingcunji, a ragione, può essere definito "terra di nessuno" perché, in assenza di una vera autorità centrale, è perennemente in balìa dei vari occupanti che successivamente vi spadroneggiano a loro piacimento. Essendo un territorio di confine, incuneato tra due province, i briganti filo-comunisti, fatta razzia nella provincia di Henan, si rifugiano in quella di Anhui, dove si possono ritenere al sicuro, e viceversa.

Anche mons. Barosi teme i pericoli che questo distretto può nascondere, tanto che la visita, alla fine, diventa quasi un'ossessione carica di cupi presentimenti. Eppure, e per gli stessi motivi, non può rimanere tranquillo nella sicura residenza centrale, situata in una zona controllata dai giapponesi, sapendo i suoi missionari esposti a disagi e pericoli d'ogni genere.

Così il 10 novembre parte, in treno, da Kaifeng e il 17 raggiunge la città di Luyi, sotto controllo giapponese e residenza di p. Zanardi. Il mattino del 18 novembre, in compagnia di questi, lascia la città. Prima di arrivare a destinazione, incontrano p. Zanella che sta loro venendo incontro e alle quattro del pomeriggio sono a Dingcunji. L'accoglienza della gente è festosa; la presenza del vescovo, in un momento così critico, non può non rappresentare un motivo di speranza. Ma la gioia e la fraternità rinsaldate sembrano destinate a durare troppo poco in Cina, un paese che, almeno in quegli anni, sembrava così avaro di speranza.