PADRE ALFREDO CREMONESI
(15 maggio 1902 - 7 febbraio 1953)

 20 febbraio 1946, Toungoo, in Birmania: «Da ormai sei anni sono forzato al silenzio. La guerra è stata terribilmente lunga e la prova per noi difficile oltre ogni dire. Qui fummo per quattro anni in mezzo a una guerra coloniale, devastatrice e crudele più di ogni altra, perché in colonia nessuno ha interesse a combattere, e tutti trovano gusto a rubare. Ho dovuto scappare anch'io nel bosco e vi assicuro che durante la stagione delle piogge non è affatto piacevole, soprattutto se non si ha nulla. Possedevo solo i vestiti che avevo addosso. Non ebbi mai una goccia di olio per condimento, non si vide mai pane, mancammo per anni di zucchero, ci venne a mancare persino il sale, dovemmo usare ogni cosa per vestito e zoccoli per scarpe. Tutti i mercati erano stati devastati e svuotati. Non c'era più nessuna idea di botteghe, tutti i mezzi di comunicazione erano in mano ai giapponesi per la loro guerra, e le strade erano battute e distrutte continuamente dai potenti aeroplani inglesi; non era possibile alcun scambio di merci, nemmeno tra regione e regione. Abbiamo, dunque, sofferto tutti, e nessuna meraviglia se adesso mi trovo stanco, di una stanchezza però vincibile. Sono vivo. E' questa una grande grazia, dopo aver affrontato la morte quasi ogni giorno. Il Signore mi ha visibilmente protetto».

Sono ormai ventun'anni che p. Alfredo Cremonesi è in missione, affrontando sofferenze di ogni tipo, compresi i grossi disagi causati dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, come descrive in questa lettera. Chi l'avrebbe detto che sarebbe riuscito a sopportare queste enormi privazioni fisiche, proprio lui di salute così debole e provata, che già da giovane aveva rischiato di morire? Anni addietro nessuno avrebbe osato scommettere su di lui. Impossibile che diventasse missionario. Affetto da linfatismo e con il sangue malato, durante gli studi liceali Alfredo dovette trascorrere lunghi periodi a letto, nel seminario diocesano di Crema, senza nessuna speranza di guarigione. I mille rimedi sembravano inefficaci e ormai medici e familiari cominciavano a credere di non poterlo salvare. E quand'anche ce l'avesse fatta, sarebbe sempre stato un "povero malaticcio", costantemente sotto cura e bisognoso di medicine e ricostituenti. Invece guarì perfettamente. Ne era sicuro: si era affidato a santa Teresa del Bambin Gesù e sapeva che gli avrebbe concesso questa grazia particolare. Così, una volta riacquistata la salute, decide di lasciare il seminario diocesano per quello missionario.

Gli ostacoli però non sono ancora tutti superati. Questa volta deve scontrarsi con il padre. Infatti, benché cristiano convinto, molto impegnato nell'Azione cattolica, suo padre si oppone in maniera risoluta a questa scelta di vita. Ma Alfredo non si scoraggia e, con l'aiuto della mamma, nell'ottobre del 1922, all'età di vent'anni, inizia a frequentare la terza teologia nel Seminario per le Missioni Estere di Milano.

Sempre in movimento, precipitoso nel parlare e nell'azione, si lascia impressionare da ogni cosa e si entusiasma subito a tutto: gli piace scrivere romanzi e comporre poesie; numerose riviste cattoliche ospitano suoi articoli. Scrittore brillante, dunque, e poeta, tanto che, mentre porta a termine gli studi teologici, insegna lingua italiana agli studenti del ginnasio. Il 12 ottobre 1924 viene ordinato sacerdote ed esattamente un anno dopo parte per la Birmania. Ha solo ventitré anni quando salpa da Genova verso questo paese sconosciuto, eppure saluta coraggiosamente i suoi amici, i suoi sei fratelli minori e i suoi genitori, giurando a se stesso di non rientrare mai più in patria.

Arrivato il 10 novembre 1925 a Toungoo, p. Alfredo si trova in un mondo completamente diverso dal suo e per un anno deve impegnarsi nello studio lingua e del nuovo stile di vita, dopodiché gli viene affidato l'incarico di seguire la procura della missione. Tenere i conti, combinare il bilancio, inviare il necessario per scuole, cappelle, orfanotrofi e dispensari ai missionari lontani: non è certo quello che si aspettava di fare andando in missione. Ma fa bene il suo dovere, pur aspirando ad altro: «Stando a Toungoo, con che desiderio guardo a quella catena di monti che si alzano come nubi all'orizzonte! E' lo Yoma Occidentale, dove ci sono molte tribù cariane. Quanto vorrei essere tra quelle regioni montuose...».

Presto il suo sogno si realizza: il vescovo gli affida un distretto nuovo e Donoku, un villaggio sperduto tra i monti, diventa il punto di partenza per molte sue spedizioni. Inizia così la sua «vita di vagabondaggio tra villaggi pagani e cattolici», diventando uno dei viaggiatori più instancabili tra i suoi confratelli. Infatti, come lui stesso scrive, «i villaggi sono generalmente molto distanti l'uno dall'altro, per il fatto che i monti sono innanzitutto una riserva del prezioso teck, "vera cuccagna" del governo. Un esercito di incaricati sorvegliano piante, ne contano gli anni e i mesi. Ai villaggi, quindi, viene assegnata un'area ristrettissima e si cammina a volte giornate intere senza incontrare nessuno. Bisogna quindi portarsi dietro tutto, se non si vuol morire di fame».

Il suo entusiasmo è grande, ma la giovinezza inesperta e l'impazienza lo portano presto a doversi misurare con la sua fragilità e umanità: «Vi dico il vero: molte volte mi sono sorpreso a piangere come un bambino, al pensiero di tanto bene da fare e alla mia assoluta miseria, che mi immobilizza, e non una volta sola, schiacciato sotto il peso dello scoraggiamento, ho chiesto al Signore che era meglio mi facesse morire piuttosto che essere un operaio così forzatamente inattivo». Eppure, proprio nel suo rapporto d'intimità profonda con Dio, trova la forza per andare avanti.

Infatti è missionario soprattutto con la preghiera. Dedica molto tempo all'adorazione e non esita a trascorrere diverse ore della notte davanti all'Eucaristia. Questa la sua àncora di salvezza, anche nei momenti più duri di solitudine. Dopo dieci anni passati tra i monti scrive: «Che cosa significa per me esser solo? Significa un cumulo di questioni che se ve le raccontassi tutte per filo e per segno non la finirei più. Significa un cumulo di faticacce, a cui a quest'ora dovrei avere già fatto il callo, ma che, viceversa, pesano sempre di più. Le mie povere gambe su quei montacci stentano ormai tanto a salire. In una settimana di giro, passo attraverso una varietà straordinaria di malattie, e quando ritorno mi meraviglio di essere ancora in piedi. E ho solo 35 anni. Una vergogna, vero, essere così fiacco a quest'età? Forse colpa del clima, forse colpa del cibo, forse colpa delle troppe preoccupazioni, ma più di tutto colpa della mia irrimediabile povertà per cui devo continuare a fare buchi nella cinta dei calzoni e rinunciare a una quantità di cose che mi devo convincere essere inutili». Ma tutto questo lo porta a maturare una fede sempre più autentica e una profonda consapevolezza di essere un inutile strumento nelle mani del Signore: «Noi missionari non siamo davvero nulla. Il nostro è il più misterioso e meraviglioso lavoro che sia dato all'uomo non di compiere, ma di vedere: scorgere delle anime che si convertono è un miracolo più grande di ogni miracolo». Questa è la forza che lo spinge a continuare, nonostante tutto.

E così continua le sue "peregrinazioni apostoliche", lasciandosi plasmare da Dio che agisce non solo fuori ma anche dentro di lui. Infatti, pur con le sue crisi interiori, riesce a essere sempre servizievole, sempre allegro: irradia intorno a sé gioia e serenità, tanto che la gente dei villaggi vicini lo chiama "il sorriso della missione". Nel 1941 la Seconda guerra mondiale si fa sentire sempre più vicina. Al sopraggiungere dei giapponesi sul territorio birmano, gli inglesi internano i missionari nei campi di concentramento in India, eccetto i sei anziani che sono sul luogo da più di dieci anni. Tra questi c'è p. Cremonesi, che rimane a Mosò fino al termine della guerra. Ancora più solo e privo di ogni cosa, deve affrontare tribolazioni di ogni tipo. A forza di mangiare erbe cotte in acqua e sale, quando c'è, si riduce a un "fantasma", e all'esaurimento per inedia si aggiunge la febbre malarica che lo divora. Ma più ancora delle privazioni materiali, ci sono le sofferenze morali. Fino all'8 settembre 1943 i missionari italiani sono trattati dai soldati giapponesi come amici, ma in seguito ne diventano i peggiori nemici: «In tutto il tempo dell'invasione giapponese io rimasi tra i cariani rossi dei monti nelle vicinanze di Loikaw. Fui dunque per tutto il tempo vicino al fronte, essendo a tre miglia soltanto dalla strada carrozzabile, l'ultima rimasta ai giapponesi per la loro fuga serrata e per la loro estrema, disperata difesa. Su questa strada, negli ultimi sei mesi di guerra, passarono almeno duecentoventicinquemila giapponesi, in fuga verso il Siam. Passavano di notte, in file serrate di cinquemila, a piedi o su tutti i mezzi possibili di trasporto: automobili, camions, motociclette, biciclette, carri da buoi, elefanti, cavalli, muli. Confluivano da tutte le parti della Birmania, da dove erano cacciati dalle vittoriose truppe anglo-americane. Ti puoi dunque immaginare come noi, che eravamo solo a tre miglia dalla strada, fummo "tartassati". Non si poteva scappare, perché questi sono luoghi dove di foresta ce n'è poca, e io ero fisso nel programma di rimanere con la gente fino a che fosse possibile, per essere di aiuto e conforto. Arrischiai così la vita quasi ogni giorno. Tra noi non ci fu nessun morto, mentre nei villaggi vicini molti furono massacrati dai giapponesi, per il solo gusto di uccidere. Ma fummo derubati di tutto. Non ci avanzò neppure una gallina, nemmeno un maiale, pochissimi buoi e bufali. Tutto il riso ci venne portato via. Io poi fui preso, l'ultimo mese di guerra, da un ufficiale estremamente crudele, il quale comandava le ultime squadre giapponesi che, secondo tutte le apparenze, dovevano essere composte da ladri e assassini liberati dal carcere e lasciati per l'ultimo macello. Venni legato per una notte e un giorno al loro campo, e poi, non so ancora per quale miracolo, fui liberato. Allora dovetti scappare e rifugiarmi nel bosco. In quell'occasione fui nuovamente derubato di tutto. I miei cristiani raggranellarono qualche piatto, un cucchiaio, un po' di riso, mi diedero una delle loro coperte e così potei arrivare fino alla fine della guerra».

Ai primi di gennaio del 1947 la Birmania è ormai libera dall'invasione giapponese e indipendente dall'Inghilterra e p. Alfredo può tornare a Donoku. Con nuovo entusiasmo si mette a ricostruire tutto quello che è stato devastato e a risistemare quanto è ormai abbandonato: «La mia vita ricomincia con grande rapidità, ho dovuto soprattutto aprire nuove scuole, tutti vogliono istruirsi...». Insegna catechismo e anche inglese, assiste e cura gli ammalati, riprende le sue attività pastorali. Ma ben presto sopraggiungono nuove prove. La Birmania ha sì ottenuto l'indipendenza, ma il governo centrale incontra grossi ostacoli: le tribù cariane, e in particolare quelle formate da protestanti battisti, si ribellano al potere costituito e si danno alla guerra partigiana. I cattolici, rimasti fedeli al governo, sono malvisti dai ribelli, inoltre non godono di nessuna protezione da parte dell'esercito regolare che non osa addentrarsi troppo nel territorio controllato dalla guerriglia. Così p. Cremonesi, in seguito a un'irruzione di ribelli nel villaggio di Donoku, è costretto ad abbandonare il suo lavoro e a rifugiarsi a Toungoo: «Se riuscissi a tornare lassù! Il peggio che mi càpiti è di essere ammazzato dai ribelli. Ma l'agonia di questi mesi è peggiore di qualunque morte».

Per la Pasqua 1952, essendo stato stipulato un patto di non belligeranza tra ribelli e governativi che assicura alla regione un po' di calma, osa tornare a Donoku. Ma la pace è di breve durata. Benché ormai sconfitti, i ribelli compiono continue scorrerie, anche nei villaggi presidiati dalle guarnigioni governative. La guerra tra i due schieramenti è senza esclusione di colpi; soprattutto è furiosa la rabbia delle truppe regolari contro i villaggi cariani, sospettati ormai indistintamente di favorire i ribelli. E p. Alfredo, pur di assistere i suoi cristiani, ne condivide tutti i pericoli. Ha ottenuto da ambo le parti un lasciapassare per potersi muovere più liberamente, ma adesso anche i governativi nutrono grossi sospetti su di lui, troppo ostinato a voler lavorare in zona di guerriglia. Così, dopo il fallimento di un'operazione militare con la quale l'esercito regolare intendeva ripulire definitivamente la regione dai ribelli, le truppe governative, durante la ritirata, irrompono improvvisamente nel villaggio di Donoku, accusando p. Cremonesi e gli abitanti del villaggio di favoreggiamento nei confronti dei ribelli. A nulla servono le parole concilianti del padre, che cerca di spiegare e rassicurare, difendendo l'innocenza della sua gente. Accecati dalla rabbia, i soldati non gli lasciano neppure il tempo di terminare il discorso. Rispondono immediatamente con raffiche di mitra. Colpiscono per primo il capo-villaggio, che si trova accanto al missionario, poi si rivoltano contro p. Cremonesi. Colpito in pieno petto, cade a terra. E' il 7 febbraio 1953.

 

qui la sua ricorrenza e links