PADRE PIETRO MANGHISI
(7 gennaio 1899 - 15 febbraio 1953)

 A Monopoli, quarantadue chilometri a sud di Bari, da una famiglia di agricoltori e agronomi, il 7 gennaio 1899 nasce Pietro, il sesto dei dodici figli di Luigi Manghisi e Paola Immizzi. E' un ragazzo molto vivace, a cui piace giocare e correre con gli amici sull'aia o nei campi, dove il papà coltiva la vigna e le piantagioni di ulivi e agrumi. Appena terminate le elementari, prosegue gli studi in seminario, fino ai primi anni del liceo, quando deve abbandonare la scuola. Infatti, dopo la disfatta di Caporetto inflitta all'esercito italiano dalle truppe austriache l'8 novembre del 1917, vengono inviati al fronte i "ragazzi del '99" e tra questi c'è anche il seminarista Pietro Manghisi, allora diciottenne. E così, inaspettatamente, si trova a vivere il Natale del '17 sull'Asolone del Grappa, al freddo, lontano dei suoi cari e con un'amarezza profonda nel cuore. Conclusa l'esperienza al fronte, viene destinato all'ufficio "Perizie danni di guerra" a Milano. Ormai il seminario e la voglia di studiare sembrano lontani.

A Milano, infatti, pur essendo militare, non vive in caserma, alloggia in una pensione con amici e, dopo un'intera giornata impegnata tra le "scartoffie" del catasto, trascorre le serate giocando a carte o a biliardo, andando a teatro, al cinema o a spettacoli di varietà. La sua vita sembra procedere spensierata, eppure Pietro non è sereno. Sfiduciato e insoddisfatto, nel luglio del 1920, annota sul suo diario: «Quanti pensieri ho per la testa. Come sono annoiato e afflitto. Chi farà lume nella mia mente squilibrata? Non so che cosa mi agita internamente. Quale vita mi si presenterà nel mio avvenire? Chi farà luce? Quante cose nella vita! Quante disillusioni! Quanti inciampi!».

Tenta di riprendere privatamente lo studio, nella speranza di ottenere la licenza liceale, ma l'esito degli esami è «un fiasco completo». Ha vent'anni ed è stanco, esasperato, angosciato perché non riesce ad individuare la sua strada. Il mancato conseguimento del diploma, che gli avrebbe aperto tante vie, contribuisce a rimettere tutto in discussione. Tornare in seminario? Iscriversi a qualche corso? Darsi al commercio? Tutte domande a cui non sa rispondere.

Nell'autunno del 1921, dopo aver sostenuto gli esami di riparazione, concorda con il padre l'iscrizione alla facoltà di ingegneria dell'Università di Bari. Ma proprio il giorno della partenza cambia ancora idea. Questa, sarà l'ultima volta. Finalmente ha capito e l'inquietudine sembra svanire: decide di farsi sacerdote. Entra così al Pontificio Seminario Regionale di Molfetta. La sua vocazione, però, non è ancora pienamente definita: il 12 settembre 1922, infatti, si trasferisce a Ducenta, nel Seminario Meridionale per le Missioni Estere. Aveva sentito parlare di questo nuovo seminario aperto da p. Manna e anche lui aveva voluto contribuire alle spese, non pensando di rimanerne così tanto coinvolto. Lo racconta lui stesso, scrivendo, molti anni più tardi: «Quando p. Manna aprì il seminario di Ducenta, io ero studente in quello di Molfetta. Non so come, mi capitò tra le mani il suo foglio di "Propaganda missionaria". Su quel foglio c'era un breve appello che invitava a contribuire all'arredamento del seminario per le missioni. Gli mandai cinque lire. Dopo pochi giorni mi arrivò una cartolina missionaria, in cui c'era scritto: "Grazie della sua offerta. Se l'offerta poi fosse lei stesso, sarebbe molto più gradita". Per me quelle parole, in apparenza scortesi, furono come la piccola fiamma che accese il fuoco. Dopo nemmeno un anno arrivavo a Ducenta».

Il 6 giugno 1925, terminati a Milano gli studi teologici, viene ordinato sacerdote nella Cattedrale di Monopoli e la notte del 16 ottobre salpa da Napoli per Kengtung, in Birmania, insieme ad altri 14 missionari, tra cui p. Alfredo Cremonesi (destinato a Toungoo in Birmania) e p. Antonio Barosi (destinato a Nanyang in Cina). Dopo un anno e mezzo di studio della lingua a Kengtung, p. Pietro viene destinato a Mong Ping, punto di partenza per la visita ai villaggi sparsi nelle foreste e sui monti. Qui la vita è dura e nel giugno 1927, scrivendo al suo parroco, racconta: «E' da parecchi giorni che sono tra questi monti impraticabili, senza sentieri, e con un tempo piovigginoso che fa venire l'uggia e accascia l'animo già oppresso dalla solitudine. Se non fosse per l'amor di Dio, per convertire le povere anime, nemmeno a caricarmi d'oro sarei capace di fare questa vita. Vai su e giù per i monti; scivoli di qua, cadi di là; attraversi questo fiumiciattolo. Passa per quel luogo melmoso; apriti questo sentiero, riceviti questo acquazzone, sopporta quei raggi cocenti di sole, mangia alla meglio, riposati come si può e avanti, sempre avanti! Oh, l'entusiasmo finisce presto, se fosse solamente quello! Aggiungi la ferita che si apre al cuore, quando giungendo a un villaggio (e qui i villaggi non sono che di quaranta, cinquanta persone) ti vedi sparire quei pochi abitanti come pulcini dinanzi allo sparviero; e se tutti tremanti ti ricevono in casa, ricusano di voler sentire parlare di Dio. Oggi, per esempio, sono stato ricevuto come un grande uomo, perché sapevano che avevo con me delle medicine. Ebbene, dopo aver cavato un dente a una vecchia e medicato il braccio di una donna, dopo aver parlato di questa e di quell'altra cosa, quando il catechista (io con questa lingua mushò ancora non so cavarmela sufficientemente) ha cominciato a parlare di Dio, gli anziani a poco a poco hanno tagliato la corda, lasciandomi solo con i ragazzi e le ragazze, a cui avevo dato gli zuccherini, e che ora ne attendevano degli altri. Quale amaro disinganno! Si va con la speranza nel cuore e si ritorna con l'animo pieno di tristezza. O Signore Iddio, abbiate pietà di questi poveri, perché se non ci mettete voi la mano, noi siamo buoni a nulla».

Ma p. Manghisi non si scoraggia: la sua profonda umiltà e la sua grande fede, che lo porta ad avere un'immensa fiducia nella preghiera, lo sostengono nel suo apostolato e lo aiutano ad affrontare ogni difficoltà. Così, nella sua residenza abituale, mentre cura i casi di tifo e di malaria, si circonda di allegria: la sua casa rigurgita di ragazzini orfani o abbandonati. Li assiste, li educa e li istruisce: «Se sono paffutelli e allegri, il missionario gode della loro felicità. Ma se li vedo intirizziti dal freddo o stesi su una stuoia, consumati dalla malaria, allora anch'io sto male!». Con infinita pazienza e amorevolezza, a poco a poco, p. Pietro si conquista la fiducia e la stima di tutta la popolazione lahu della zona.

Egli sa, però, che nella missione di Kengtung c'è ancora molto territorio da esplorare, abitato da tribù mai raggiunte da nessuno: sui monti ci sono gli Wa, i tagliatori di teste. Da quando è stata tagliata la testa ad alcuni ufficiali inglesi, avventuratisi nella zona, anche per i missionari vige la proibizione di passare quel confine pericoloso. Ma p. Pietro li ha come "vicini di casa" e spera un giorno di poterli conoscere, aiutare ed evangelizzare. Finalmente, dopo tanta insistenza, nel 1937 le autorità inglesi gli concedono il permesso di aprire un nuovo distretto tra gli Wa: «Il mio cuore esultò di gioia, quantunque mi tremasse un po' per paura di fare qualche incontro poco gradito con questi Wa che vanno in giro in cerca di teste umane per infilzarle su dei pali vicino ai loro villaggi, come offerta agli spiriti protettori dei nuovi campi di riso. Invece tutto andò sempre bene; l'angelo custode mi accompagnò per tutto il tempo».

Così si stabilisce a Mangphan, la capitale del distretto Wa, un grosso villaggio buddhista a più di tremila piedi d'altezza. Si sistema sotto una tettoia di paglia, tra i venditori di sale e aspetta. Cerca di parlare con chi incontra, comincia a distribuire medicine, cura gli ammalati, raccoglie i bambini abbandonati... Col tempo anche i famigerati tagliatori di teste gli si affezionano, lo aiutano a costruirsi una casa, un dispensario, un orfanotrofio e più tardi anche una cappella di bambù! Ben inserito e stimato, il 21 giugno 1940, è costretto, però, ad abbandonare il suoi nuovi amici. L'Italia, infatti, ha dichiarato guerra all'Inghilterra e i missionari italiani che vivono in Birmania, colonia inglese, si trovano da un momento all'altro dalla parte dei nemici. Anche p. Manghisi, benché isolato nella foresta, viene accusato dagli inglesi di fanatismo fascista. Considerandolo individuo pericoloso per la sua presunta propaganda anti-inglese, lo costringono ad abbandonare i monti: «O povero mondo, come sei ridicolo! - annota sul suo quaderno - Per un innocuo missionariuccio, quanto fracasso!». Eppure c'è poco da ridere: dopo essere stato arrestato, perquisito e privato di tutti i suoi averi, gli viene proibito di ritornare tra gli Wa.

Ma il peggio deve ancora venire. La guerra imperversa ovunque e il governo inglese della Birmania, prevedendo l'invasione giapponese, nel 1941 decide di internare tutti i civili europei nei campi di concentramento in India. Anche i preti italiani, presenti in Birmania da meno di dieci anni, devono lasciare le loro missioni. P. Pietro Manghisi, che è un "veterano", può rimanere a Lashio, ma condannato alla più totale inoperosità. Dopo la ritirata degli inglesi, la sua posizione non migliora con i nuovi venuti, i giapponesi, dai quali è sospettato di essere una spia. E' la Kempetai, la famigerata polizia segreta giapponese, che tortura e uccide senza scrupoli: «Il solo nome Kempetai fa venire i brividi. Per tre lunghi anni ognuno in Birmania visse sotto questo terribile spettro. Le sue lunghe braccia arrivavano ovunque: nessuno era fuori dalle sue orribili sgrinfie: neppure l'armata giapponese, né gli stessi suoi generali; ma noi missionari, perché bianchi di colore e cristiani, eravamo le sue vittime particolari».

Anche p. Manghisi conosce i rigori di questa spaventosa associazione per delinquere, sopportandone le torture e gli insulti. Per cinque giorni viene percosso, schiaffeggiato, maltrattato in ogni modo, finché viene rilasciato, ma solo dopo aver firmato le scuse all'armata giapponese per il disturbo arrecato e promesso di non raccontare ciò che ha subìto. E' il maggio 1942 e solamente tre anni più tardi, il 15 aprile 1945, con la disfatta dei giapponesi, p. Pietro può tornare a Lashio. La città è completamente distrutta e presidiata da due reggimenti americani e venticinquemila cinesi. I soldati cattolici americani, dopo aver costruito una chiesetta in legno, si rivolgono a p. Manghisi perché diventi il loro cappellano.

Nel dicembre del 1948 p. Pietro viene richiamato in Italia, con l'incarico di rettore del seminario di Ducenta. La nomina non lo rallegra perché non si sente all'altezza, si ritiene incapace di "comandare" e si giudica culturalmente impreparato. E poi i lunghi anni di assenza dall'Italia lo fanno sentire uno "straniero" in patria. Le sue motivazioni sono fondate, ma il superiore, p. Manna, insiste. E così, per ubbidienza più che per reale convinzione, alla fine accetta. Il 24 aprile del 1949, dopo ventiquattro anni di missione, è a Ducenta, disponibile a cominciare un'altra vita. Ma la sua permanenza in seminario è davvero brevissima, anche se sufficiente per lasciare nei ragazzi un ricordo vivo e affettuoso. Infatti dopo la dichiarazione di indipendenza del 4 gennaio 1948, la situazione politica della Birmania è peggiorata a tal punto che il governo, ritenendo la ribellione delle tribù del nord alimentata da agenti nemici, emana delle norme estremamente restrittive per regolare l'ingresso degli stranieri nel paese. E i missionari italiani non fanno eccezione. In seguito a queste norme possono rientrare, entro il 1949, soltanto quei missionari che hanno ottenuto il visto prima del 1930. Tra questi, in Italia, c'è solo p. Manghisi. Così p. Pietro rientra in Birmania e nel gennaio 1950 è a Namtu, nuovamente sui monti cariani: «Qui c'è molta miseria. Durante le lotte tra i ribelli ho avuto dei morti tra i cristiani, tra cui un catechista. Ora abbiamo paura che ci piovano addosso i comunisti cinesi. Già tanti cinesi scappano qui perché in Cina c'è fame e tasse. Nella nostra missione di Kengtung le truppe cinesi nazionaliste si sono sparse sui monti portando paura e fame».

Lashio, il distretto dove nel 1951 è nuovamente trasferito p. Pietro, vicino al confine con la Cina, è ancor più soggetto alle incursioni e rappresaglie dei soldati irregolari cinesi. Essi, mancando di viveri e di paga, si danno perciò al brigantaggio e compiono frequenti razzie a danno dei villaggi cariani. Questi, per difendersi, hanno costituito un contingente di truppe con l'appoggio del governo. P. Manghisi, nonostante la difficile situazione, si dedica alla cura dei feriti. E' consapevole del pericolo cui va incontro, ma non può esimersi dallo stare vicino alla sua gente. Così, spesso, si ritrova in pieno campo di battaglia. Il 15 febbraio 1953, mentre si reca in jeep sul confine, cade in un'imboscata tesa dai guerriglieri cinesi. E' il conducente della jeep che racconta l'accaduto: «Al mattino il padre celebrò la messa per i soldati, all'accampamento di Nampaka e subito continuò il viaggio in jeep verso la frontiera. Il padre volle guidare e io gli sedevo accanto. Per strada caricammo due donne anziane e un bambino. Al 91° miglio a nord di Lashio, mentre la jeep passava su un ponte, cominciò una scarica di mitraglia dalla collina sovrastante. Io saltai fuori dalla macchina e rotolai sotto il ponte, mettendomi così in salvo, ma la mitraglia continuava rabbiosa. L'auto rallentò e appena superato il ponte il padre cadde sul ciglio della strada con il cranio trapassato da due pallottole, mentre la macchina si schiantava contro la montagna. Una decina di guerriglieri cinesi si precipitarono giù dalla collina sulla jeep. E io, uscito dal nascondiglio, corsi dal padre che mi riconobbe, mosse le labbra, sbarrò gli occhi e spirò. Allora supplicai i guerriglieri di aiutarmi a portar via la salma ma essi mi intimarono con i fucili spianati "Lascia i morti dove sono e vai via, se hai cara la pelle..."».

Dal 1962, al 91° miglio della Burma road, una croce bianca, con una lapide in marmo richiama ai passanti il martirio di p. Pietro e testimonia la sua fedeltà alla vocazione missionaria.