PADRE CESARE MENCATTINI
(7 maggio 1910 - 12 luglio 1941)

 17 settembre 1927: il campanello del seminario del Pime ad Agazzi, in provincia di Arezzo, trilla forte e a lungo. Sbirciando dalla finestra, il rettore scorge, immobile davanti al portone, un ragazzo con due occhi scintillanti e il volto deciso: «Mi prendete? Voglio farmi missionario!».

Viene da Bibbiena, ha diciassette anni e si chiama Cesare Mencattini. Da cinque anni ha lasciato la sua casa, per recarsi prima nel seminario di Arezzo e poi, a causa della salute delicata, in quello di Cortona, dove ha compiuto gli studi ginnasiali con risultati brillanti.

Ora, però, il desiderio di diventare un buon sacerdote diocesano non gli basta più: l'idea della missione si fa sempre più forte, tanto da diventare il suo pensiero fisso.Ma la strada è ancora lunga, anche se l'entusiasmo non manca.

Gli piace studiare e studia con impegno, ma quando può non esita a passare qualche giorno nelle vicinanze della foresta di Camaldoli, immerso nel silenzio e nella natura, che lo incanta e lo corrobora, rinvigorendolo dopo i lunghi mesi trascorsi sui libri.

La sua anima è rapita dalle meraviglie del creato: in un'escursione, dopo una notte trascorsa con i compagni a contare le stelle, vede la cima di Pratomagno, sormontata dal gigantesco crocione: «Quella vista - scriverà anni dopo - ci infuse gran desiderio di umiliare sotto i nostri piedi quella cima superba, camminammo sulla giogaia della catena montuosa che separa il Valdarno dal Casentino: poco prima delle nove percorrevamo quelle belle praterie che assomigliavano a tappeti di velluto... Ah, i bei panorami di quella vallata!».

E il suo spirito si eleva a Dio salendo la Verna: «Passammo per l'Abetone e per lo scoglio di Frate Lupo; dalla terrazza della Penna non ci si stanca mai di ammirare quell'incantevole Valle Santa! Io ci sarei rimasto delle ore in contemplazione... I vasti orizzonti invitano l'anima ad allargarsi, suggeriscono cose grandi e ci si sente arditi... Lassù, da quella cima ben poteva San Francesco intonare il Cantico delle creature...».

Terminata la teologia, nel seminario del Pime di Monza, si prepara al presbiterato: «Non pensiamo di essere in credito davanti a Dio facendoci missionari! Siamo sempre noi debitori a Lui, per questa grazia che, quaggiù, non arriveremo mai a capire!». E, inviando gli auguri per le feste natalizie al fratello minore Pasquale, seminarista a Cortona, scrive: «Presto saremo sacerdoti, e proprio per il Mistero che in questa solennità si celebra! La nostra vita sacerdotale sarà un continuo inno di "Gloria a Dio" e un perenne messaggio di "Pace agli uomini"... Per quanto grandi tu ti immagini i sacrifici della nostra vocazione, pure non arriverai mai a fartene un'idea! Bisogna essere disposti a tutto...».

La sua grande ambizione è quella di mettere in pratica l'esempio di Cristo, ma è consapevole della sua debolezza e capisce che, per essere pronto ad affrontare tanta sofferenza, ha bisogno di essere ben allenato e per "allenamento" si sottopone persino a un'operazione chirurgica... senza anestesia.

Il 22 settembre 1934 don Cesare viene ordinato sacerdote. Durante i brevi ritorni in famiglia, fa già il missionario, predicando ritiri spirituali, visitando i malati nell'ospedale di Bibbiena e tenendo incontri missionari nel Casentino.

Il 9 agosto 1935, all'ora suggestiva del tramonto, nella penombra della cappella dell'Istituto, il Superiore Generale saluta i nuovi missionari con le parole rivolte da Gesù agli apostoli: «Io vi mando come agnelli tra i lupi...» e mostra le difficoltà della loro scelta, senza nascondere timori e speranze.

Dodici anni di formazione, una vocazione lungamente curata e ora sono vicini a realizzare il loro sogno. «Secondo le mie previsioni - scrive p. Cesare - andrò in Cina, perché ad essa verrà destinato il grosso della spedizione di quest'anno. Così sarebbero appagati proprio i miei desideri e avrei il campo che in questi tempi ci dà la speranza di coronare la nostra vita con la palma dei Martiri». Questo il pensiero che accompagna p. Mencattini e i suoi compagni, mentre, alla stazione di Milano, vedono il gruppo dei parenti e degli amici fermi sulla banchina rimpicciolire sempre più, rapiti dalla distanza che il treno in corsa rende infinita. Allora si partiva così: un nodo in gola e un "mai più, se non in cielo" conficcato negli sguardi.

Dopo un lungo viaggio per nave, il 10 settembre 1935 p. Cesare giunge in Cina, a Shanghai: «Sono tanto contento di essere arrivato qui e di aver dato così a Dio una prova che veramente lo amo, avendogli fatto il sacrificio delle persone e delle cose più care... Sono nella mia patria d'adozione; ringrazio il Signore che mi ha condotto tra i cinesi; ora si tratta di acclimatarsi e morire al proprio modo di vivere, per adottarne uno nuovo».

E non è facile. Già durante i nove mesi di studio della lingua, a Kaifeng, presso la Casa Regionale del Pime, ha più volte occasione di rendersi conto delle difficoltà che i missionari devono affrontare: «Vi sono popolazioni immense, in regioni estese per centinaia di chilometri di desolazione e miseria. Noi missionari non potremmo arrivare a tutto, neppure se avessimo le ali. Siamo costretti a fare ben poco in proporzione al lavoro immenso che c'è da compiere. Gli abitanti di queste zone sono ridotti alla più estrema indigenza dopo il passaggio dei briganti, le guerre e le inondazioni del Fiume Giallo. Per le vie si vedono gruppi di straccioni che non hanno neppure un buco dove rifugiarsi la notte e sono privi anche degli stracci sufficienti per ripararsi dal freddo che qui, nel Henan, è tanto intenso. Non si può immaginare quanto costi a noi missionari vivere qui. Non sono le sofferenze fisiche che ci fanno veramente soffrire, ma il sentirci soli in mezzo a questo popolo che ci guarda con indifferenza e disprezzo. Spesso giungono al nostro orecchio parole di insulto. Quando ci vedono passare, per esempio, molto facilmente dicono: "Ecco un cane europeo". Se sapessero quanto bene vogliamo loro e i sacrifici che abbiamo fatto e facciamo per vivere e stare in mezzo a loro!».

Ma p. Mencattini non si scoraggia perché sa di essere nelle mani di Dio anche in questo «deserto di sabbia gialla, fine fine, che te la trovi addosso, negli orecchi, negli occhi, dovunque... In questa pianura senza confini, tutta uguale... Che contrasto con i panorami di verde e di incanto che presenta il nostro Casentino!».

Anzi, gli riesce d'essere contento. Infatti, inviato nel giugno 1936 nel vasto distretto di Huaxian, come coadiutore di p. Paolo Giusti di Lucca, scrive al fratello: «Io sono felice di fare il prete zingaro, senza chiesa, senza canonica, senza beneficio ma... ricco di anime, cariche di stracci ma rigenerate alla grazia! I miei cristiani sono poveri ma... veramente buoni! Come mi stanno attenti quando parlo loro della bontà di Dio e della vita eterna! Poi tutti in ginocchio, sulla nuda terra, sotto le stelle, a pregare... Dillo, se questa non è vera felicità! Dopo aver abitato per sei giorni in certe topaie e capanne di fango, questa mia stanzetta per me vale più che il Quirinale per Sua Maestà il Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia. Ti assicuro che sono veramente felice, perché ho il cuore contento. Contento di aver lasciato i miei cari, perché il mio affetto sia completamente rivolto verso Dio e verso tanti poveri, che ora mi sono carissimi avendoli rigenerati al battesimo. Contento di aver rinunciato alle bellezze della nostra Italia per queste sabbie gialle che mi sono divenute familiari quanto il mio paese. Contento di lasciare la mia scienza, appresa con tanta fatica, per farmi ignorante ed esporre con le parole più semplici, con i paragoni più rozzi, in una lingua non mia, le bellezze della nostra religione. Contento di dover rinunciare alla grandiosità liturgica dei nostri paesi cattolici, per celebrare la Santa Messa e amministrare i sacramenti nella forma più povera...».

E così p. Cesare si butta a capofitto nelle sue "escursioni" attraverso le sterminate pianure del Fiume Giallo. Posto il suo "quartier generale" a Baliying, ogni lunedì mattina, inforcata la sua bicicletta, parte in visita ai villaggi cristiani tornando a casa ogni sabato sera, per passarvi la domenica. Proprio mentre p. Cesare sta raggiungendo i primi, promettenti risultati nell'attuazione del suo "piano pastorale", scoppia la guerra cino-giapponese e il futuro diventa sempre più oscuro. Deve sospendere il progetto di aprire delle scuole, rimandare i catechisti alle loro case e far fronte ai bisogni più urgenti della gente.

Nel 1937 l'avanzata giapponese è sempre più preoccupante: si alzano trincee e sospetti. Incominciano le ostilità. Nel gennaio 1938, ormai, la guerra infuria e ai brevi momenti di tregua succedono intensi bombardamenti: «Ovunque sono scomparse tutte le autorità. Col continuo passaggio dei soldati, le riserve alimentari, già misere a causa dello scarso raccolto dell'ultimo autunno funestato dalle inondazioni, sono agli sgoccioli. Lo spettro della fame e il brigantaggio sono inevitabili».

P. Cesare, più volte, si spinge fino in prima linea per soccorrere i feriti, assistere i moribondi, seppellire i morti. Più volte viene inseguito e catturato dalle truppe di una o dell'altra parte; finché, nel febbraio del 1939, i giapponesi stabiliscono a Huaxian un presidio per il controllo della città e per il rastrellamento della campagna. I posti già occupati dai giapponesi, e spesso abbandonati per i loro spostamenti, ricadono nelle mani o dei comunisti o dei briganti, o di altri soldati. La città di Huaxian, in un anno, ha subito questo stato di cose almeno cinque volte: sotto le truppe regolari, poi sotto i giapponesi, quindi sotto i briganti, poi i comunisti e ora è stata occupata nuovamente dai giapponesi che lavorano alacremente per sollevarla.

Al principio del 1941, descrivendo la situazione caotica in cui ancora si trova, p. Cesare scrive: «Da tempo pensavo di scrivervi. Le circostanze attuali me l'hanno impedito. Potessi descrivervi il mondo in cui viviamo! ... Vi meravigliereste come ancora nessun missionario di Weihui non ci abbia lasciato la pelle. Cercherò di raccontarvi qualche cosa. Da quattro anni, curo il medesimo distretto. Ancora non ho passato un giorno di pace. Sempre in guerra. Tutta la mia zona è stata ed è sempre, piena di soldatacci che mi fanno tribolare non poco. Che guerra strana! In qualsiasi luogo siamo al fronte. Non ci si capisce nulla in tanto disordine. Non trovo parole per darne un'idea. Vi sono i comunisti! Fanno paura. Agiscono e si muovono sempre di notte. Poveri noi, se riuscissero a stabilirsi! Mi sono incontrato con loro quattro o cinque volte. Me la sono sempre cavata per vera protezione del Signore. La prima volta mi spararono ben tre rivoltellate, senza riuscire a colpire né me né il servo, nonostante i proiettili ci sfiorassero la testa e la schiena! La seconda volta mi portarono via la coppa del calice, la pisside e stracciarono cotta e messale. Una terza volta, al buio, tornando da un'estrema unzione, mi fermarono, spianandomi i fucili dinanzi. Pochi giorni or sono, mi condussero con loro, ma mi rilasciarono subito, senza neppure perquisirmi. Per fortuna non riescono a fermarsi a lungo in un medesimo luogo. Sono combattuti continuamente dai giapponesi e dai soldati del vecchio governo. Poi vi sono anche i soldati del nuovo governo. Aggiungete, infine, una moltitudine di brigantacci che cercano di rosicchiare più che possono, commettendo ogni sorta di delitti e di rapine... Tra le loro vittime, io conto due catechisti portati via da loro, di cui uno fu sepolto vivo e uno fu decapitato. Immaginate la confusione, le guerriglie! Io vi sono sempre in mezzo. Così da tre anni e più, senza sapere come andrà a finire. Oggi sotto questi, domani sotto quelli, sempre assillato dal pensare al modo migliore per cavarmela con tutti, continuando il mio lavoro. Come vedete, mi trovo in una posizione difficile e anche pericolosa. In questi ultimi mesi, quasi tutti i giorni si vedono villaggi in fiamme, si odono scariche di fucili. E noi, qui ad aspettare che... passi. Proprio mentre scrivo, poco lontano, si sentono fucilate, interrotte dal crepitare della mitragliatrice. Forse sono i briganti che prendono d'assalto qualche paese; forse sono i comunisti che si picchiano con i soldati del nuovo governo. Prima di notte, sicuramente, si sentirà anche il rombo del cannone, con cui i giapponesi, da lontano e per un momento, metteranno in fuga tutta quella soldataglia. Nonostante tanto disordine, sono riuscito a fabbricare una piccola cappella. E' di lusso per questo paese, dove non esiste una casa più bella. Sono semplici mura di fango, all'esterno ricoperte di mattoni. Ho in mente di ornarne le disadorne pareti e arricchirla d'un altarino decente che sostituisca l'attuale tavolaccio. Ho in progetto anche la costruzione d'una casa asciutta e più sana per me. Il legname è pronto. Poi il catecumenato, la scuola... Quanti sogni! Finisse la guerra! Questo è il sogno, la speranza più grande. Si è troppo stanchi di questa vita così agitata, si è troppo nauseati di vedere tante miserie e tanti corpi straziati. Non si può resistere più a lungo, sentendo tanti pianti e tanti lamenti. Così nel nostro vicariato vi sono un buon numero di missionari molto scossi in salute. Io però sono ancora nel numero dei sani».

P. Mencattini pur sapendo che la situazione è sempre più pericolosa e può precipitare da un momento all'altro, tuttavia, decide di rimanere sul "campo". Già dal luglio 1939, infatti, scrive: «Più volte mi sono gettato in ginocchio attendendo la morte. Non ho mai lasciato il mio posto. Se dovessi perdere la vita per causa del mio ministero, sarei proprio felice».

E anche quando nel 1940 scoppia il colera e a causa degli enormi strapazzi a p. Cesare viene una fortissima dissenteria e a p. Giusti la malaria, pur richiamati dal vescovo, decidono di restare. Devono correre nei punti più dislocati del distretto, per consolare, aiutare centinaia e centinaia di rifugiati e sinistrati, seppellire i morti. Il vescovo è costretto a cedere di fronte alla loro risolutezza.

Poi, all'improvviso, giunge in Italia un telegramma indirizzato al Superiore Generale del Pime: «Il 12 luglio 1941 p. Cesare Mencattini è rimasto vittima in un assalto avvenuto da parte di soldati cinesi sbandati. Nella medesima circostanza sono stati feriti p. Angelo Bagnoli e p. Leo Cavallini». Il telegramma non dà altri particolari e bisogna attendere il mese di novembre per poter avere notizie più dettagliate.

Da una lettera di p. Sordo, procuratore della missione a Hankou, vengono finalmente ricostruiti i fatti. La sera dell'11 luglio, dopo un estenuante viaggio in bicicletta sotto il solleone, da Baliying p. Cesare giunge a Huaxian, per trattare con p. Giusti l'acquisto d'un appezzamento di terreno per la costruzione di una scuola femminile. Decidono di parlarne al vescovo: il giorno dopo, p. Cesare si recherà a Weihui in compagnia di p. Bagnoli e p. Cavallini. E così, dopo la celebrazione della messa, all'alba del 12 luglio, partono tutti e tre: p. Cesare in bicicletta viene rimorchiato con una corda dai suoi due confratelli in moto. Verso le nove, la piccola carovana giunge al mercato di Qimen. Tutto sembra tranquillo, nessuno può prevedere che di buon ora sono arrivati dei soldati irregolari che si dicono dipendenti dal mandarino di Rencun. I padri, giunti a un centinaio di metri dalla porta del mercato sono, senza alcun preavviso, presi a fucilate da quei soldati che si erano appostati dietro un muricciolo fuori dall'abitato. Tutti e tre vengono colpiti dalle loro palle dum-dum. P. Mencattini cade all'istante emettendo un doloroso grido, con il ventre squarciato dalle pallottole. Lo finiscono subito a baionettate e lo seppelliscono dopo averlo derubato di tutto, anche degli abiti.

P. Bagnoli, che è stato ferito alla coscia sinistra, fa appena a tempo a chiamarlo per nome e dargli l'assoluzione. P. Cavallini, colpito al piede sinistro, ha l'osso della caviglia fratturato e cade con la moto nel fosso a lato della strada. P. Bagnoli tenta inutilmente di fermare i briganti spiegando loro che sono missionari cattolici, ma quelli si limitano a rispondere: «Lo sappiamo». Poi fermano un carro, caricano i due feriti e li conducono al mercato. Qui li abbandonano in una pagoda, dove rimangono fino alle quattro del pomeriggio, minacciando e percuotendo tutti coloro che si avvicinano per soccorrerli. I due superstiti sono condannati a essere seppelliti vivi, ma, provvidenzialmente, un influente ufficiale cristiano, avvertito dell'accaduto, dopo ore di vive discussioni riesce a strapparli dalle mani dei loro assalitori. Quindi, su due carrettini trascinati a mano, i pp. Bagnoli e Cavallini vengono trasportati all'ospedale di Weihui, distante cica 25 chilometri, dove finalmente possono essere curati. Il cadavere di p. Mencattini, invece, sempre per l'interessamento dell'ufficiale cristiano, viene disseppellito e composto in una bara. Il giorno dopo è trasportato a Weihui, dove i confratelli, i fedeli ma anche i non cristiani, si recano, numerosi, a porgergli l'ultimo saluto.