Luiz Felipe Pondé,   Salmos chilenos

Ter esperança, crer na vida e amar separa a infância espiritual da maturidade d'alma

Aver speranza, credere nella vita e amare separa l'infanzia spirituale dalla maturità dell'anima

 

Dias atrás entrei na catedral de Santiago do Chile.
Minha mulher, discípula de Guimarães Rosa, para quem "quanto mais religião melhor", adora todo e qualquer santo.

Eu, mais miserável nesse assunto, apesar de não religioso, sou facilmente capturado pelo aspecto estético e sublime de templos sagrados. Foi um prazer ver e ouvir aquela missa "en chileno".

A catedral silenciosa, discreta e com pouca luz, com sua altura gigantesca, nos ajudava a lembrar nosso lugar no mundo... que não me venham os inteligentinhos fazer o blá-blá-blá da crítica à religião, porque a conheço desde o jardim da infância.

Sentir-se "em seu justo lugar no mundo" é parte clássica de toda boa espiritualidade, contra esse narcisismo dos "direitos do Eu total" de hoje, essa coisa "ninja brega".

Este "justo lugar no mundo" é parte daquilo que o historiador das religiões Mircea Eliade chama de perceber que não somos o "axis mundi" (o eixo do mundo). Toda verdadeira espiritualidade deve nos ajudar a vivenciar este "descentramento" de nosso próprio valor.

O mistério me encanta e me faz sentir menos banal. A sensação da banalidade de tudo me esmaga continuamente. Sou um peregrino da falta de sentido. Uma testemunha da noite escura da alma de San Juan de la Cruz e Terrence Malick. Não levo a sério ateus militantes que ainda acham que ateísmo é "evolução espiritual". Para mim, ateísmo é, apenas, o modo mais óbvio de ser e um estágio elementar em filosofia.

Fiquei ateu com oito anos. Alguém poderia dizer que com os anos me tornei um ateu encantado pelo "personagem" Deus e pela possibilidade de existir o perdão no mundo, justamente porque, no fundo, não o merecemos. Sou cego, mas pressinto o espaço à minha volta.

O padre em sua homilia falava da alegria da vida. O papa Francisco quando cá esteve tocou neste tema, falando da "religião da alegria". Não se trata de autoajuda, como pode parecer aos desinformados, mas da mais fina teologia moral cristã (e judaica também).
O que é essa alegria? Vejamos.

A vida é precária. A pobreza (material, espiritual, psicológica) é como a gravidade, na hora em que relaxamos, ela nos consome. É uma questão de tempo.
Nosso caminho é "para baixo". Não é à toa que tomamos antidepressivos o tempo todo, cada um se vira como pode. A solidariedade na melancolia devia nos unir a todos.

O que não perdoo na autoajuda é que ela mente para nosso justo desespero dizendo que ele é mera questão de incompetência.

É aqui que começa a consistência da teologia da alegria a qual se refere o papa Francisco: temos todas as razões "materiais" do mundo para sermos tristes, o milagre é não sermos tristes todo o tempo.

Confiar na vida é quase impossível. A fé na vida é um mistério e um dom. Muito mais caro do que a inteligência e a cultura... não as desprezo, porque inclusive elas são quase tudo que tenho.

Este é o sentido de fé como "estar acompanhando" em sua encíclica "A Luz da Fé". A alegria da qual falava o padre chileno e o papa Francisco é a "alegria teologal", aquela que nasce das três virtudes teologais básicas: a esperança, a fé e a caridade (o amor).

Ter esperança, crer na vida e amar são experiências que separam a infância espiritual da maturidade d'alma. O desespero é o caminho mais curto entre dois momentos na vida. A esperança é que é o milagre para quem enxerga o mundo como ele é. Por isso, toda literatura espiritual séria começa pelo vale das sombras.

Dizer que uma virtude é teologal é dizer que ela é fruto da graça de Deus, não uma dedução a partir dos fatos do mundo. Dos fatos, apenas deduzimos o desespero.

Mas, por isso mesmo, esta alegria, quando nos visita, tem o hálito divino, por sua própria quase total impossibilidade de ser, para quem reconhece o vale das sombras à nossa volta. Na mística, esta alegria pode nos levar às lágrimas. Este é o conhecido "dom das lágrimas", marca de quem vê a beleza do mundo em meio ao véu absoluto do desespero.

Nada a ver com religião como muleta, mas sim com uma espiritualidade de quem caminha entre sombras.

Fonte:  Folha de S.Paulo

Giorni fa' sono entrato nella cattedrale di Santiago del Cile. Mia moglie, seguace di Guimarães Rosa, per cui "quanto più religione tanto meglio", adora tutto ciò che sa di santo.

Io, in ciò più miserabile, nonostante non essere religioso, sono facilmente preso dall'aspetto estetico e sublime dei templi sacri. E' stato un piacere vedere e ascoltare quella messa "in cileno".

La cattedrale silenziosa, discreta e in penombra, con la sua altezza enorme, ci aiutava a ricordare il nostro posto nel mondo...
che i sapientoni non mi vengano a fare il verso della critica alla religione, perché la conosco fin dall'asilo.

Sentirsi "al proprio posto nel mondo" è figura classica di ogni buona spiritualità, contro questo narcisismo dei "diritti dell'Io totale" di oggi, sta cosa "ninja cafona".

Questo "giusto posto nel mondo" fa parte di ciò che lo storico delle religioni Mircea Eliade chiama il percepire che non siamo l'"axis mundi" (l'asse del mondo). Ogni autentica spiritualità ci deve aiutare a sperimentare questo "discernimento" del nostro reale valore.

Il mistero mi incanta e mi fa sentire meno banale. La sensazione di banalità totale mi schiaccia continuamente. Sono un pellegrino della mancanza di senso. Un testimone della notte oscura dell'anima di San Giovanni della Croce e di Terrence Malick. Non prendo sul serio atei militanti che ancora pensano che ateismo è "emancipazione spirituale". Per me, ateismo è, solo, il modo più ovvio di essere in uno stadio filosofico elementare.

Mi ritrovai ateo a 8 anni. Qualcuno potrebbe dire che con gli anni sono diventato un ateo affascinato dal "personaggio" Dio e dalla possibilità che esista nel mondo il perdono, proprio perché, in fondo, non lo meritiamo. Sono cieco, ma avverto lo spazio intorno a me.

Il Sacerdote nella sua omelia parlava della gioia della vita. Il Papa Francesco quando stette qua toccò questo tema, parlando della "religione della gioia". Non si tratta di auto-aiuto, come potrebbe sembrare ai malinformati, ma della più fine teologia morale cristiana (e anche giudaica).
Cos'è questa gioia? Vediamo.

La vita è precaria. La povertà (materiale, spirituale, psicologica) è come la gravità, appena cediamo, ci consuma. E' solo questione di tempo. Il nostro cammino è "verso il basso". Non per niente prendiamo continuamente antidepressivi, ognuno si arrangia come può. Nella malinconia la solidarietà dovrebbe unirci, tutti noi.

Ciò che non perdòno all'auto-aiuto è che inganna la nostra reale disperazione dicendo che è solo questione di ignoranza.

E' qui che inizia la consistenza della teologia della gioia alla quale si riferisce Papa Francesco: abbiamo tutte le ragioni "materiali" del mondo per essere tristi, il miracolo è non essere sempre tristi.

Confidare nella vita è quasi impossibile. La fiducia nella vita è un mistero e un dono. Molto più prezioso dell'intelligenza e della cultura... non che le disprezzi, anche perché sono quasi tutto ciò che ho.

E' questo il senso della fede come "accompagnarsi", nella sua enciclica "La Luce della Fede". La gioia di cui parlava il sacerdote cileno e il Papa Francesco è la "gioia teologale", quella che nasce dalle 3 virtù teologali basiche: la speranza, la fede e la carità (l'amore).

Aver speranza, credere nella vita e amare sono esperienze che separano l'infanzia spirituale dalla maturità dell'anima. La sfiducia è la via più corta fra 2 fasi della vita. E' la speranza che è il miracolo per chi addocchia il mondo com'è. Perciò tutta la letteratura spirituale seria comincia dalla valle delle ombre.

Dire che una virtù è teologale è dire che è frutto della grazia di Dio, non una deduzione a partire dai fatti del mondo. Dai fatti, solo deduciamo scoraggiamento.

Ma, perciò stesso, questa gioia, quando ci tocca, possiede l'alito divino, data la sua quasi totale impossibilità di esistere, per chi conosce la valle delle ombre che ci circonda. Nella mistica, questa gioia può arrivare a  commuoverci fino alle lacrime. Conosciuto come il "dono delle lacrime", è segno di chi scorge la bellezza del mondo attraverso il fitto velo della disperazione.

Nulla a che vedere con la religione come stampella, ma certo con una spiritualità di chi fra ombre sta camminando.