Padre
fabrizio (missionario
del pime in bangladesh)
appunti di
viaggio
Dinajpur - P.Fabrizio
Calegari
Rubel
Alle iscrizioni per il nuovo
anno scolastico, per i “cuccioli” di classe sesta si
presentano 46 bambini intorno ai 10-12 anni. Procediamo ad
un esame su alcune materie scolastiche per darci modo di
capire un poco il loro livello di preparazione, ma
soprattutto per avere un appiglio a cui aggrapparci per
giustificare quelli che manderemo a casa. Quando abbiamo i
risultati raduno tutti e comunico i nomi di quelli che
resteranno. La maggior parte non ha passato l’esame, ma li
pigliamo lo stesso: avranno un anno per crescere nelle loro
capacità. Li vedo tesi e lo so: tutti sono venuti qui con
la speranza di restare. Tornare a casa vorrà dire per tanti
non poter continuare la scuola. Non è giusto, mi dico. D’altra
parte più di venticinque non posso prenderne. Sono già
tanti. Ad uno ad uno si alzano quelli promossi, mentre gli
altri restano seduti, immagine simbolica che mi intristisce.
Uscendo, Rubel mi corre di
fianco. Lo conosco da quando aveva 6 anni e praticamente è
rimasto alto uguale. Come allora ha sempre quell’allegria
e quel sorriso contagioso che mi mettono istintivamente di
buonumore. “Padre!” – mi dice agitato e felice – “Avevo
una paura matta di non passare!”. “Invece ce l’hai
fatta, hai visto?” – gli faccio dandogli uno scapaccione
affettuoso.
“Sì, però senta qua! –
dice Rubel prendendomi la mano e portandosela all’altezza
del cuore. Non c’è bisogno dello stetoscopio: dentro il
petto da passerotto sento il cuore che pare voglia schizzare
fuori tanto batte forte.
Un anno nuovo
Si ricomincia. Avverto la
gioia profonda e la voglia di rimettermi in gioco con i
ragazzi. Ho un po’ di idee per le proposte formative di
quest’anno. Una è andata in porto proprio in questi
giorni e ne sono soddisfatto. Suor Rina – una suora
bengalese che ha studiato psicologia in Italia – mi ha
assicurato un paio di incontri mensili per le classi dei
più grandi. Darà la possibilità ai ragazzi di conoscere
meglio se stessi e a me quella di conoscere meglio i
ragazzi.
L’altro ieri abbiamo fatto
la festa di benvenuto per i nuovi 36 arrivati: canti, danze,
scenette, dolci e… lavanda dei piedi. Come lo scorso anno
ho voluto lavare i piedi a tutti i nuovi, così come la
gente usa fare nei villaggi quando arriva un ospite. Prima
si versa l’acqua fino al ginocchio, poi si asciuga e
infine con l’olio di colza si unge e massaggia. Lo trovo
un gesto bellissimo, molto denso, pieno di accoglienza e di
attenzione per l’altro. Oltre al fatto che rimanda
dritto-dritto al Vangelo. E’ un momento che vivo proprio
con la consapevolezza di essere qui solo a servizio dei
ragazzi: “Sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc
22,27). Mentre ungo i piedi di Paulus e l’odore pungente
dell’olio di colza m’impregna le mani, vedo una
cicatrice che porta sullo stinco: “Si ricorda? – mi dice
Paulus – Me l’ha curata lei.” Ci metto un po’ ma poi
ci arrivo: una caduta giocando a pallone e brutto taglio
curato con punti adesivi e mercurio cromo. Roba di cinque
anni fa. Mi piace questa cosa. Dei miei ragazzi conosco
anche la storia dei piedi. Mica poco.
I migliori
Consegno le borse di studio a
dodici ragazzi che si sono distinti lo scorso anno per
risultato scolastico e impegno nell’ostello: scuola, vitto
e alloggio saranno totalmente gratuiti per un anno. Con il
computer ho preparato un diploma con il nome di ciascuno,
così che il premio sia anche visibile. Nel riceverlo,
qualcuno è imbarazzato come se stesse rubando, qualche
altro quasi piange. Io sono orgoglioso per loro. Soprattutto
perché i migliori studenti della scuola – che conta
centinaia di ragazzi, in maggioranza musulmani – sono i
miei ragazzi. Hanno preso quasi tutte le migliori posizioni
per ogni classe. Alla faccia del razzismo bengalese che
vuole i tribali inferiori e meno brillanti. Eccoli qui i
tribali: dategli una possibilità e, almeno a scuola, non
sono secondi a nessuno. Ma i primi a non crederci sono i
ragazzi stessi, tanto è forte il senso di inferiorità.
Ecco perché queste borse di studio sono uno stimolo e un
rinforzo positivo enorme.
“Avete visto?” –
domando ai ragazzi alla fine. “E allora, chi sono i
migliori?”. Silenzio.
“Chi sono i migliori?”
– ribadisco alzando la voce. “Noi” – risponde
qualcuno debolmente.
“Chi sono i migliori???”
– richiedo gridando e portando una mano all’orecchio,
come per sentire meglio le loro risposte. “NOI!” –
gridano finalmente tutti quanti. E rimaniamo così a
guardarci, ridendo e battendoci le mani.
Polas
Mentre guardo i ragazzi che
giocano a cricket, Polas, 19 anni, mi si siede accanto, all’ombra
di una pianta di mogano. E’ in classe decima, nel gruppo
dei più grandi.
“La sa una cosa, padre?”
– dice Polas venendo subito al dunque. “Da quando
abbiamo cominciato a vivere ogni mese una frase di Vangelo,
qui non è più come prima!”.
“In che senso, scusa?”
– faccio io che di cambiamenti così radicali non ne ho
visti.
“Lei sa che qui tra noi ci
sono molte etnie diverse. Prima i litigi e i contrasti per
questa ragione erano moltissimi. Quasi ogni giorno, si può
dire. Adesso non è più così. E io sono convinto che è
proprio grazie alle parole proposte del Vangelo”.
Sono sorpreso a metà. Da una
parte lo sono perché dove non ti aspetti o non vedi
miglioramenti a volte altri li vedono e li conoscono. Quante
volte è capitato! Dall’altra invece non mi meraviglia,
perché sono convinto che il Vangelo vissuto cambia la vita,
le abitudini, le tendenze e anche le culture. E’ il
Signore Gesù che opera, ed è Lui che i ragazzi incontrano,
vivendo le sue parole.
La casa di Shumon
Approfitto di qualche giorno
di vacanza per andare a trovare qualcuno dei ragazzi nei
loro villaggi. E’ sempre una bella occasione per imparare
a conoscerli meglio. Vedere dove abitano, incontrare i loro
genitori, spesso rivela lati nascosti ma importanti della
loro storia e del loro carattere. E poi è bello anche solo
stare insieme al di fuori del solito ambiente.
Shumon vive con due sorelle e
la mamma, vedova da tanti anni. Sono stati battezzati da
poco, insieme al resto del villaggio, uno dei più
miserabili della parrocchia. Tutti e tre i figli sono
studenti nei nostri ostelli, prima nelle elementari e ora
alle superiori. Non avrebbero avuto altrimenti modo di
andare a scuola: la mamma si arrabatta come può, a volte
anche in modo non proprio lecito. Non è un mistero che la
donna abbia più volte fabbricato vino di palma da vendere
ai musulmani, la cui presenza non è mai gradita nel
villaggio, specie sotto i fumi dell’alcool. Condannarla
sarebbe facile. Di fatto le è stato chiesto espressamente
di abbandonare questa pratica se voleva ricevere il
Battesimo. Poi guardo la loro abitazione e capisco ogni
cosa: una casetta di fango le cui pareti paiono stare su con
lo sputo, il tetto di paglia che non reggerà alle prossime
piogge, una stanza e un letto solo che deve bastare per
quattro quando i ragazzi sono a casa, pochi stracci per
vestiti appesi su una lista di legno. Difficile immaginare
una miseria maggiore. Eppure i ragazzi sono cresciuti che
sono uno splendore. Shumittra, la maggiore, ha ormai 19
anni. Da tempo la mantengo negli studi, perché lo merita e
perché un villaggio non ha speranza di riscatto se non nell’educazione
dei figli.
Shumon è il classico
adolescente formato bengalese: in pochi mesi è cresciuto in
modo pazzesco, sviluppandosi per il lungo e mettendo in
evidenza solo le ossa. Prendendolo in giro lo chiamo “shupari”,
come la palmetta di betel che cresce alta, dritta e magra. E
lui ride, mostrando tutti i denti bianchissimi, con un
sorriso da bravo ragazzo.
La mamma mi siede vicino sul
bordo del letto, di fianco ai cuscini sudici.
Mi mostra il certificato
della borsa di studio che a gennaio ho consegnato anche a
Shumon. E’ evidente che ne è orgogliosa. Non si tratta
solo del fatto economico. C’è molto di più in quel pezzo
di carta. Una mamma lo sa. Shumon se lo è guadagnato con un
risultato scolastico brillante e un’ottimo comportamento
nell’ostello. Dare un premio così a ragazzi come lui
riempie di gioia.
Mentre Shumittra di fuori si
sta prodigando per prepararmi un tè, la madre mi fa capire
che c’è qualcosa di cui vuole parlarmi. L’angoscia
traspare palese dal suo viso di donna ancora giovane ma
invecchiato dalle fatiche, logorato dalla miseria. Indossa
un sari liso e sporco e ha i capelli raccolti in qualche
modo. In Bangladesh, le vedove ancora oggi soffrono una
condizione di emarginazione e degrado che non è differente
da quella dei tempi di Gesù. Mi racconta che il padrone del
terreno sul quale c’è la loro “casa” vuole venderlo e
quindi le ha intimato di andarsene. Tempo per sbaraccare: un
mese.
Finisce il racconto e non
può trattenere un rivolo di lacrime che scivola via sulle
guance sciupate. Gli occhi sono due pozzi di rassegnazione.
Le prendo una mano, anche per destarmi da un magone che sta
prendendo anche me, sarà che sto invecchiando.
Shumittra entra con il tè,
versato in un bicchiere d’acciaio. Sorride debolmente
guardandomi e capisce l’argomento del colloquio. Mi offre
anche qualche biscotto che io giro subito alla mamma. Il tè
è pessimo, fatto al modo tribale, col sale e lo zucchero
insieme. Però non lo do a vedere, ne trangugio qualche
sorsata facendo attenzione a non ustionarmi la lingua e
vigliaccamente faccio i miei complimenti a Shumittra. Lei si
schermisce ridendo imbarazzata.
Mi viene in mente che proprio
qualche giorno prima ho sentito che non lontano da qui, in
un altro villaggio, la Diocesi sta offrendo delle casette in
muratura ad alcune famiglie cristiane che si stanno
trasferendo lì. Sono certo che ce ne sarà una anche per la
famiglia di Shumon. Mentre comunico a tutti questa idea, mi
guardano come se parlassi da un altro pianeta. Garantisco
che la cosa è possibile, che mi darò da fare. Stavolta è
la mamma a prendermi la mano. Cerca di baciarla ma
istintivamente la ritraggo perché mi mette a disagio: non
sono il salvatore della patria.
“Una casa in muratura!”
– dice trasognata la donna. “Non ci sarà più da
preoccuparsi che i muri crollino durante la stagione delle
piogge…”.
Shumon è accoccolato in un
angolo della stanzetta. Nella penombra vedo che sorride.
Pettegolezzi
Prendo un risciò per andare
in città a fare compere. L’uomo che mi porta e pigia di
lena sui pedali, ad un tratto si volta e sorridendo affabile
mi chiede: “Come va, padre, tutto bene?”. Lo guardo
interdetto. Sono certo di non conoscerlo ma, evidentemente,
lui conosce me. Dai tratti somatici non mi pare cristiano,
però per conferma glielo chiedo. “No padre, sono
musulmano!” – mi dice. “E allora come fa a sapere chi
sono?” – chiedo io che adesso sono curioso di sapere.
“Ma qui la conoscono tutti! Lei lavora all’ostello con i
ragazzi, vero?”. Faccio di sì con la testa, anche se
continuo a non capire.
“Vede? Da quando lei lavora
qui, sono tutti contenti!” – mi dice voltandosi
pericolosamente il mio nocchiero, che guarda me e non la
strada.
Tutti? Tutti chi??? “I
ragazzi!” – mi fa lui come se fossi l’unico stupido a
non saperlo.
Questa poi. Per la serie: “Il
paese è piccolo e la gente mormora”. Non so se l’amico
musulmano, pedalando, si sia accorto della differenza di
carico. Dopo le sue parole sono certo di essere aumentato di
peso.
Raccontaci Papa Wojtyla
Subito dopo la sua morte i
ragazzi mi hanno chiesto del Papa, di raccontare chi era,
cosa aveva fatto. Loro che si e no lo hanno visto in foto,
qualche volta. Ho preparato un album di foto scaricate da
internet e mi sono accorto che sfogliarlo era come sfogliare
la mia vita. Ho messo anche la mia prima foto scattata con
lui: anno 1983, udienza del mercoledì in piazza S. Pietro,
la sua mano sinistra sulla mia guancia, la destra stretta
tra le mie.
Raccontando, mi sono
ritrovato a pensare a Giovanni Paolo II con un affetto che
è sfociato presto nella commozione. Difficile parlare
mentre si piange e ci si sforza di non farlo. E’ che ci
sono cresciuto con questo papa. Molti come me si sono
trovati in compagnia di Giovanni Paolo II prima nell’adolescenza,
poi nella giovinezza, infine nella maturità.
Forse per questo, nonostante
siano passati un po’ di giorni e la piena dell’ emozione
si sia depositata, ugualmente provo un senso di orfanezza
che fatica ad andarsene. Allo stesso tempo però mi accorgo
di ritrovare in me la gioia di saperlo accanto come mai
prima. Fin da subito, dopo la sua morte, ho cominciato a
pregarlo e ad affidarmi a lui, come non avrei potuto fare
prima. Non c’è più bisogno di chiedere udienza o di
aspettare raduni. Giovanni Paolo non se n'è andato. E' qui,
vivissimo. Mi pare un bel vantaggio.
Mentre mostravo ai ragazzi le
immagini registrate alla televisione del funerale, guardavo
la folla immensa che stipava Roma e tornavo a chiedermi cosa
l’avesse spinta a questa “follia” del riversarsi in
massa laggiù. Immagino che sociologi e psicologi abbiano
versato fiumi di parole per spiegarla. Ma se penso a quello
che ha affascinato me di Giovanni Paolo II, credo di
trovare, forse, una risposta parziale ma possibile.
Papa Wojtyla è stato un uomo
vero, anzitutto. Vero e libero, fino in fondo. Non ha mai
smesso di mostrare quello che era, sia negli anni belli,
quando fisicamente si imponeva, sia in quelli dello strazio
della malattia e del corpo rattrappito. Lo abbiamo visto
sciare e affrontare viaggi massacranti ma anche
impossibilitato a camminare, perdere la bava, senza mai
nascondersi; ridere piegato in due per un numero di clown e
rapito in preghiera davanti al Santissimo; affascinare folle
di giovani con catechesi esigenti e senza sconti ma anche,
alla fine, restare senza parola e impotente.
Un uomo vero, dunque, e un
uomo di Dio. Un mistico, hanno detto molti. Lo credo anch’io.
Ci ha ridato la fierezza di dirci cristiani, senza paura e
senza timidezze: non con arroganza ma per la gioia
consapevole di avere incontrato il Risorto. E la gioia è
contagiosa, come la santità. Attira. Non sta ferma, si
propone e annuncia. Non a caso la missione è una delle
chiavi di lettura fondamentali del suo pontificato. La gente
lui è andata a cercarla nelle loro case, non è stato ad
aspettarla in S. Pietro. L’avessero capito anche tanti
preti.
L’ultima grande catechesi
sono stati gli ultimi giorni di vita. In fondo credo che in
tanti abbiamo sperato, inconsciamente, di vederlo morire
così. Volevamo la conferma, altro che dimissioni. Volevamo
che dopo averci insegnato a vivere, ci insegnasse anche come
morire.
Se la folla è accorsa è
perché sapeva che incontrando un uomo vero incontrava anche
un vero uomo di Dio. Un santo, hanno gridato al funerale.
Anche qui in Bangladesh, nel
nostro piccolo, la morte del papa ha avuto una grande eco.
Prime pagine dei giornali, molti articoli positivi, servizi
al telegiornale. La gente ne parlava anche al mercato. Me lo
raccontava un cristiano, orgoglioso: aveva ascoltato i
musulmani che ne parlavano ammirati, perché vedendo la
folla in televisione, commossa, in preghiera, in fila
tranquilla e senza disordini, hanno semplicemente dedotto:
“Quest’uomo è un santo”.
Per la nostra piccola
comunità cristiana questa testimonianza è un credito
prezioso da non sciupare, che potrebbe tradursi in maggiore
rispetto e forse amicizia. Un altro dono di Giovanni Paolo.
P.Fabrizio Calegari
FONTE: MISSION
BLOG (PIME - Direzione Generale)
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