Il
4 giugno di ogni anno Hong Kong mostra il suo
lato migliore: nel parco Vittoria decine di
migliaia di cittadini si radunano per
ricordare la strage di piazza Tiananmen.
L’emozionante veglia avviene da 18 anni: è
un happening popolare da vivere con gli amici
e la famiglia, portando i figli piccoli, che
il 4 giugno 1989 non erano neanche nati. Per
loro non c’è altro modo di conoscere. Non
c’è traccia della strage nei libri di
scuola, né è un argomento ricordato
volentieri sui media o in celebrazioni
pubbliche.
Menzionare
la parola «Tiananmen» non solo è
politicamente scorretto, ma persino scortese.
La parola d’ordine della politica, delle
istituzioni e del mondo accademico di Hong
Kong è lasciar perdere l’ingombrante «incidente
controrivoluzionario», come viene
ufficialmente definito a Pechino. La parola
d’ordine della manifestazione, invece, è «ricordare».
«Finché i martiri di Tiananmen non saranno
riabilitati, ogni 4 giugno noi continueremo a
venire qui. Finché non ci sarà giustizia,
non abbandonerò questa battaglia», grida con
passione Sito Wah, l’anziano e carismatico
leader del movimento di sostegno agli
studenti. Hong Kong è rimasta l’unica città
al mondo dove la loro memoria viene onorata,
offrendo una prova di coraggio e civiltà
insospettata negli altri giorni dell’anno.
Tra
gli appuntamenti della commemorazione, il
messaggio di Ding Zilin, leader delle «madri
di Tiananmen», gruppo illegale in Cina ma
attivo a Hong Kong per raccogliere
informazioni e testimonianze su quanti sono
stati uccisi quella notte. La signora Ding ,
sconvolta dall’omicidio di suo figlio, ha
cercato le madri di altri ragazzi per capire
quante fossero le vittime. Ancora oggi non se
ne conosce il numero esatto. La lista da lei
redatta contiene 186 nomi; ma gli uccisi
supererebbero il migliaio. Tuttavia molte
famiglie preferiscono non denunciare la
scomparsa di un congiunto, per non
fronteggiarne le conseguenze. La coraggiosa
Ding , nominata per il premio Nobel per la
pace, è stata ostacolata in ogni modo:
seguita, interrogata, arrestata e confinata
presso la sua abitazione. Nel frattempo le
autorità negano incredibilmente il massacro,
sostenendo che «nessuno è morto a Tiananmen».
In effetti, quasi tutti sono stati uccisi
nelle vie che conducono al centro, dove la
popolazione era scesa per fermare i carri
armati, sostenere la lotta degli studenti, e
anche per curiosità, convinta che i soldati
non avrebbero fatto fuoco contro la gente. E
invece spararono sulle persone in strada e
affacciate: una strage di cittadini di ogni età,
non degli studenti in protesta. Jiang Jielian,
il figlio diciassettenne di Ding Zilin, è
morto così: non ha mai raggiunto la piazza,
non aveva mai aderito al sit-in delle
settimane precedenti.
Anche
Wang Dan, il leader studentesco più
rispettato, parteciperà alla veglia del 4
giugno con una telefonata. Rilasciato dopo
molti anni di prigionia a condizione di andare
in esilio, qualche mese fa ha chiesto di
essere assunto all’università di Hong Kong.
Purtroppo è assai improbabile che il governo
gli permetta di stabilirsi in questa città,
formalmente libera, ma di fatto dominata dalla
seguente legge non scritta: si deve fare
secondo i desideri di Pechino, anche quando
non siano stati esplicitati. E Pechino non
desidera affatto fare i conti con
l’imbarazzante eredità del massacro del
1989. Pensa, e con buona ragione, che il mondo
se ne sia dimenticato. Persino in Cina se ne
sta perdendo la memoria. Anzi , si arriva a
incolpare gli studenti, facendoli passare per
gioventù sprovveduta e ingannata
dall’americanismo.
Continuo
a stare dalla parte dei ragazzi. Hanno
interpretato con coraggio il ruolo profetico
che, a partire dal movimento del 4 maggio
1919, gli universitari esercitano nella società.
Di americanismo erano malati, piuttosto, i
responsabili della strage, molti dei quali
avevano i figli piazzati negli atenei esteri
più costosi. La corrotta classe politica e
militare che si è macchiata di questo
orribile crimine si è nel frattempo
arricchita a dismisura, importando sul suolo
cinese capitalismo, multinazionali e
McDonald’s, proprio per imbonire di
consumismo e frivolezza la gioventù degli
anni Novanta. L’operazione è (purtroppo)
riuscita in pieno: rispetto agli innocui
giovani di oggi, gli studenti di piazza
Tiananmen appaiono davvero come eroi
coraggiosi e tragici.