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ci facciamo istruire troppo poco dalla parola
dell’Evangelo su ciò
che è in gioco nell’evangelizzazione...
di
Don Pierangelo Sequeri
Di fronte all’urgenza della missione evangelizzatrice
della Chiesa sono due gli atteggiamenti ricorrenti. Il primo
viene espresso in questo modo: la missione oggi è un
problema di linguaggio. Si pensa che su di noi gravi un
problema di fraintendimento; si ha come la sensazione che se
solo si trovassero le parole giuste si arriverebbe allo
scopo.
Ci si interroga perciò continuamente su «come
parlare ai giovani» o «come parlare all’uomo
contemporaneo», come se i cristiani non avessero un
linguaggio comprensibile o non fossero anch’essi «uomini
contemporanei». Non si ha il coraggio di dire che non
abbiamo risolto il problema vitale della teologia: non la
questione del comunicare, ma quella del pensare. Abbiamo un
pensiero del cristianesimo rozzo, molto opaco. Questa è la
vera questione della teologia.
C’è poi un secondo
atteggiamento nei riguardi della missione: nell’intuizione
- magari un po’ vaga e confusa - che il problema del
linguaggio sia una specie di «araba fenice», si pensa che
la missione sia, nella sua sostanza, non un problema di
linguaggio, ma questione alternativa ad esso. Viene il
sospetto di essersi inutilmente accaniti nel pensare, nel
formulare idee e nel trasmettere parole.
La missione
cristiana - si pensa - è invece questione di fatti, di
cose, di rapporti che possono farsi strada in alternativa
alla parola. Quasi suggerendo all’interlocutore che, per
avvicinarsi al mistero cristiano si deve fare un salto oltre
la parola, verso l’ineffabile, e rivolgersi all’«esperienza
vissuta».
Questi modi di sentire riflettono un disagio,
esprimendolo però in modo astratto. Trasformano il problema
della missione in un problema di metodo. Ho la sensazione
che le Chiese, anche la Chiesa cattolica, siano pervase
dalle «questioni di metodo»; si parla, di volta in volta,
di metodo dell’evangelizzazione, della catechesi, di
metodi di preghiera, di spiritualità… e di missione
cristiana.
Continuiamo a pensare al problema del linguaggio
e dell’esperienza e ci facciamo istruire troppo poco dalla
parola dell’Evangelo su ciò che è in gioco nell’evangelizzazione.
La missione non è «il problema del linguaggio applicato al
cristianesimo» o «il problema dell’esperienza del senso
applicata al cristianesimo». Il Signore Gesù in alcune
occasioni non vuole che parlino di lui e dei miracoli che
compie. Il miracolo - allora come oggi - è sottoposto al
rischio di una testimonianza contraria a quella intesa da
Gesù.
Il miracolo come argomento per l’incantamento delle
folle, come arma polemica per far tacere l’interlocutore,
sono significati contrari all’Evangelo di Gesù, ma spesso
fin da allora ritenuti molto congruenti con la missione
evangelizzatrice. In quest’ottica non c’è differenza
tra la guarigione di un lebbroso e lo svolazzare di Gesù
sul pinnacolo del tempio: l’effetto è comunque garantito.
Per Gesù la differenza è invece decisiva: guarire il
lebbroso è atto dell’evangelizzazione; buttarsi dal
pinnacolo del tempio, è un gesto del Satana. Facciamo un
passo indietro nella tradizione biblica individuando il
legame fra due concetti: memoria e comandamento. Prendiamo
come riferimento due testi in particolare: il primo è nel
libro del Deuteronomio ai capitoli 5 e 6, il secondo è il
luogo in cui viene istituita l’Eucaristia, che è proprio
la radice della missione, l’invio dopo aver visto il
Signore risorto. Questi due testi ci dicono che l’invio
deve essere autorizzato, perché non sia parlare
semplicemente di sé.
Oggi parlando di Gesù e dell’Evangelo,
parliamo troppo di noi. Si è attenuato il senso del
comandamento, dell’autorizzazione, appunto. E invece è
proprio questo atteggiamento a fare da termine medio fra la
memoria - che è il luogo nel quale si custodisce fedelmente
la parola, l’azione, la vita e la persona del Signore - e
la missione, che è il modo nel quale la relazione col
Signore si dispiega a vantaggio di terzi. La missione è il
dispiegarsi della relazione con il Signore, non della
propaganda religiosa o della istituzione ecclesiastica.
Nel libro del Deuteronomio c’è il famoso modello della
preghiera di Pasqua dove c’è l’interrogatorio rituale.
Quando il tuo bambino ti domanderà: «Perché‚ dobbiamo
fare queste cose?», tu gli risponderai: «Perché‚ figlio
mio, una volta non eravamo nessuno, non avevamo una terra,
una casa, non avevamo più nemmeno il coraggio di mettere al
mondo dei figli perché li prendevano altri per farli
lavorare per loro. Ci sembrava di averli già condannati a
morte.
E invece, grazie a questo Dio, abbiamo trovato una
terra, una casa e adesso abbiamo una tavola dove celebrare
la Pasqua in pace. Se questo Dio ci chiedesse di camminare
sulle mani, ti giuro, figlio, che io, tuo padre, all’età
che ho, camminerei sulle mani». Questa è una risposta. Non
«perché‚ è così» o «perché‚ è prescritto
così».
Sarebbe già molto se noi potessimo concepire la
missione come il dispiegarsi della relazione col Signore, la
cui memoria è il grembo che - nella preghiera, nella
celebrazione dell’Eucaristia, nella lettura delle sacre
Scritture - sempre si ravviva.
Un dispiegarsi vitale: non è
solo linguaggio o esperienza, ma è musica, danza, anche
equazioni di secondo grado, se necessario. Ed è un
dispiegarsi a favore di terzi: se ha anche solo un vago
sentore di minaccia, non ha trovato la sua forma. Il
dispiegarsi della relazione con il Signore è anche un
giudizio sul mondo, ma la sua ragion d’essere è di essere
a favore di terzi.
La memoria custodisce l’idea che il
Signore vuole essere seguito, non subìto. Racchiude il
senso di una relazione lungamente custodita, di una
relazione desiderata, che ci tiene in vita, una relazione in
cui ci sentiamo amati. Il cristianesimo manageriale della
missione ci sta portando all’asfissia. Per questo il
dispiegamento ha bisogno di un termine medio. Altrimenti la
memoria viene come «inglobata» dal testimone, che
di-spiega se stesso, cosicché - a priori - tutte le cose
che fa sono opera della missione.
La Chiesa parla di sé e
dice: «Tu mi guardi e praticamente... ecco il Signore».
Non è così facile. Come avviene per i discepoli di Emmaus,
tra la memoria che coltivano e la capacità di essere
memoriale di Gesù a favore di terzi, il termine medio è l’assimilazione
del senso del Crocifisso. Non come generica teologia del
dolore; piuttosto come scoperta che la forma propria del
Crocifisso è la libera obbedienza di Gesù a un
comandamento che viene dal Padre e che dice: «Chi vuole
rappresentare Dio, in qualunque modo lo rappresenti, lo deve
rappresentare nell’atto di dare la vita».
Piuttosto che
trasformare la missione in propaganda, come se le opere
cristiane rappresentassero automaticamente le opere di
Gesù, è meglio... innaffiare i fiori. Infatti rappresenta
Dio ogni gesto, anche piccolo, che sia capace di mostrare in
se stesso di essere un atto di «dare la vita» a qualsiasi
cosa: dare la vita a un fiore, a un figlio, a un affetto,
dare la vita guarendo un lebbroso, mandando via qualcuno
pacificato che «rinasce», rifiorisce, appunto. E se
proprio non c’è un altro modo, piuttosto che affermare la
missione negando una vita, piuttosto che rappresentare Dio
attraverso la soppressione di una vita, non resta che dare
la propria.
Nemmeno la morte del testimone è la rappresentazione di
Dio, ma la vita che questa morte lascia all’altro. Pur di
salvare quella rappresentazione di Dio che lo vede sempre in
atto nella salvezza della vita, il Figlio (ma anche il buon
discepolo) è disposto anche a dare la propria. Questo
passaggio ha bisogno di essere autorizzato, di avere la
forma del comandamento.
Per il cristiano, ogni giorno l’atto
della missione vuole ritrovare la letizia dell’essere
autorizzato, dell’essere in qualche modo al riparo dall’idea
di essere voluto in una (forse) generosa volontà di
potenza, di efficacia a favore dell’Evangelo, ma che in
realtà è un atto di auto-rappresentazione. Si pensa:
«Siccome noi ormai siamo Chiesa, e quindi testimoni,
qualsiasi buon fine, purché vada da quella parte, è
rappresentazione di Dio». Non è così.
La mediazione del comandamento significa che gli apostoli
devono ogni volta essere inviati, che le figure e le forme
dei ministeri e dei carismi devono ogni volta essere donate,
cosicché io mi ricordi che quello che ho da dare non è mai
me stesso, ma qualcosa che mi è dato. La missione non deve
mai diventare «colonizzazione» dell’altro, dove io mi
allargo.
La nostra equazione è semplice: io porto il
Signore in me e, quando mi allargo, si allarga anche il
Signore.
Il Signore, al contrario, viene portato solo quando
si è in grado di ascoltare - prima di tutto per se stessi -
un’autorizzazione a fare memoria di Lui in quel modo.
Il
Figlio non dà la vita per uno spontaneo slancio del cuore.
Il Crocifisso non è un fanatico, non è un ossesso, non
pensa affatto che Dio sia lodato quando l’uomo soffre. Il
Crocifisso sa che quella morte - più di una volta rifiutata
prima, come ci dice l’Evangelo -, è accolta esattamente
nel momento in cui viene autorizzata e quindi anche chiesta.
In quel momento, pur essendo la morte sempre un atto
criminale e mai una grazia, essa diviene comandamento e
forma in cui Dio ha trovato la strada per trasformarsi nella
rappresentazione di una vita donata.
FONTE: Mondo
e Missione
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