"... in
Gesù, persona e missione
tendono a coincidere..."
(il segreto della vocazione sacerdotale)
Lettera
di Papa
Benedetto ai
sacerdoti
in occasione dell'anno
sacerdotale
(19
giugno 2009... 11 giugno 2010)
(...) Cari fratelli
nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di
poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san
Giovanni Maria Vianney!
Ciò che per
prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale
identificazione col proprio ministero.
In Gesù,
Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione
salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale”
che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in
atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà.
Con umile ma
vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa
identificazione.
Non si tratta
certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del
ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma
non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità
generata dall’incontro tra la santità oggettiva del
ministero e quella soggettiva del ministro.
Il Curato
d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di
armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del
ministero a lui affidato (...)
qui
la lettera del Papa
Omelia
di Papa
Benedetto, d'inizio
dell'anno
sacerdotale
(...) Il cuore di
Dio freme di compassione! Nell'odierna solennità del
Sacratissimo Cuore di Gesù, la Chiesa offre alla nostra
contemplazione questo mistero, il mistero del cuore di un
Dio che si commuove e riversa tutto il suo amore
sull'umanità. Un amore misterioso, che nei testi del Nuovo
Testamento ci viene rivelato come incommensurabile passione
di Dio per l'uomo. Egli non si arrende dinanzi
all'ingratitudine e nemmeno davanti al rifiuto del popolo
che si è scelto; anzi, con infinita misericordia, invia nel
mondo l'Unigenito suo Figlio perché prenda su di sé il
destino dell'amore distrutto; perché, sconfiggendo il
potere del male e della morte, possa restituire dignità di
figli agli esseri umani resi schiavi dal peccato. Tutto
questo a caro prezzo: il Figlio Unigenito del Padre si
immola sulla croce: "Avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò fino alla fine" (cfr Gv 13,1). Simbolo
di tale amore che va oltre la morte è il suo fianco
squarciato da una lancia. A tale riguardo, il testimone
oculare, l'apostolo Giovanni, afferma: "Uno dei soldati
con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì
sangue ed acqua" (cfr Gv 19,34).
(...)
Cari fratelli e
sorelle, fermiamoci insieme a contemplare il Cuore trafitto
del Crocifisso. Abbiamo ascoltato ancora una volta, poco fa,
nella breve lettura tratta dalla Lettera di san Paolo agli
Efesini, che "Dio, ricco di misericordia, per il grande
amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le
colpe, ci ha fatti rivivere con Cristo... Con lui ci ha
anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo
Gesù" (Ef 2,4-6). Essere in Cristo Gesù è già
sedere nei Cieli. Nel Cuore di Gesù è espresso il nucleo
essenziale del cristianesimo; in Cristo ci è stata rivelata
e donata tutta la novità rivoluzionaria del Vangelo:
l'Amore che ci salva e ci fa vivere già nell'eternità di
Dio. Scrive l'evangelista Giovanni: "Dio infatti ha
tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito,
perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la
vita eterna" (3,1 6). Il suo Cuore divino chiama allora
il nostro cuore; ci invita ad uscire da noi stessi, ad
abbandonare le nostre sicurezze umane per fidarci di Lui e,
seguendo il suo esempio, a fare di noi stessi un dono di
amore senza riserve.(...)
Lasciarsi
conquistare pienamente da Cristo! Questa è stata la meta di
tutto il ministero del Santo Curato d'Ars, che invocheremo
particolarmente durante l'Anno Sacerdotale; questo sia anche
l'obiettivo principale di ognuno di noi. Per essere ministri
al servizio del Vangelo, è certamente utile e necessario lo
studio con una accurata e permanente formazione pastorale,
ma è ancor più necessaria quella "scienza
dell'amore" che si apprende solo nel "cuore a
cuore" con Cristo. E' Lui infatti a chiamarci per
spezzare il pane del suo amore, per rimettere i peccati e
per guidare il gregge in nome suo. Proprio per questo non
dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell'Amore che è
il suo Cuore trafitto sulla croce.
Solo così saremo in
grado di cooperare efficacemente al misterioso "disegno
del Padre" che consiste nel "fare di Cristo il
cuore del mondo"! (...)
qui
l'omelia del Papa
E
nella sua omelia, nella solennità dei Santi
Pietro e Paolo, Apostoli:
(...)
Circa il compito del sacerdote? Innanzitutto, egli
comprende il ministero sacerdotale totalmente a partire da
Cristo. Chiama Cristo il "pastore e custode delle …
anime" (2,25). Dove la traduzione italiana parla di
"custode", il testo greco ha la parola epíscopos
(vescovo). Un po’ più avanti, Cristo viene qualificato
come il Pastore supremo: archipoímen (5,4). Sorprende che
Pietro chiami Cristo stesso vescovo – vescovo delle anime.
Che cosa intende dire con ciò? Nella parola greca è
contenuto il verbo "vedere"; per questo è stata
tradotta con "custode" ossia
"sorvegliante". Ma certamente non s’intende una
sorveglianza esterna, come s’addice forse ad una guardia
carceraria. S’intende piuttosto un vedere dall’alto –
un vedere a partire dall’elevatezza di Dio. Un vedere
nella prospettiva di Dio è un vedere dell’amore che vuole
servire l’altro, vuole aiutarlo a diventare veramente se
stesso. Cristo è il "vescovo delle anime", ci
dice Pietro. Ciò significa: Egli ci vede nella prospettiva
di Dio. Guardando a partire da Dio, si ha una visione d’insieme,
si vedono i pericoli come anche le speranze e le
possibilità. Nella prospettiva di Dio si vede l’essenza,
si vede l’uomo interiore. Se Cristo è il vescovo delle
anime, l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo
s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua
essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far
sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in
vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma
rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il "vescovo
delle anime", è il prototipo di ogni ministero
episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote
significa in questa prospettiva: assumere la posizione di
Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua
posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione
degli uomini, affinché trovino la vita.
Così la parola "vescovo" s’avvicina molto al
termine "pastore", anzi, i due concetti diventano
interscambiabili. È compito del pastore pascolare e
custodire il gregge e condurlo ai pascoli giusti. Pascolare
il gregge vuol dire aver cura che le pecore trovino il
nutrimento giusto, sia saziata la loro fame e spenta la loro
sete. Fuori di metafora, questo significa: la parola di Dio
è il nutrimento di cui l’uomo ha bisogno. Rendere sempre
di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento
agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve
anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere,
indicare la via, conservare l’unità del gregge. Pietro,
nel suo discorso ai presbiteri, evidenzia ancora una cosa
molto importante. Non basta parlare. I Pastori devono farsi
"modelli del gregge" (5,3). La parola di Dio viene
portata dal passato nel presente, quando è vissuta. È
meraviglioso vedere come nei santi la parola di Dio diventi
una parola rivolta al nostro tempo. In figure come Francesco
e poi di nuovo come Padre Pio e molti altri, Cristo è
diventato veramente contemporaneo della loro generazione, è
uscito dal passato ed entrato nel presente. Questo significa
essere pastore – modello del gregge: vivere la Parola ora,
nella grande comunità della santa Chiesa.
Molto brevemente vorrei ancora richiamare l’attenzione
su due altre affermazioni della Prima Lettera di san Pietro,
che riguardano in modo speciale noi, in questo nostro tempo.
C’è innanzitutto la frase oggi nuovamente scoperta, in
base alla quale i teologi medievali compresero il loro
compito: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione
della speranza che è in voi" (3,15). La fede cristiana
è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza
che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione
possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione
eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il
vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra
ragione, così come l’amore vede più della semplice
intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto
dialettico può tener testa alla ragione. Non la
contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo,
conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più
grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il
compito di comprendere noi per primi la ragione della fede.
Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una
tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre
domande. (...)
qui
l'omelia del Papa
Di seguito il
discorso di Papa Benedetto all'udienza di mercoledì 5
agosto
Nell'odierna
catechesi vorrei ripercorrere brevemente l'esistenza del
Santo Curato d'Ars sottolineandone alcuni tratti, che
possono essere di esempio anche per i sacerdoti di questa
nostra epoca, certamente diversa da quella in cui egli
visse, ma segnata, per molti versi, dalle stesse sfide
fondamentali umane e spirituali. Proprio ieri si sono
compiuti 150 anni dalla sua nascita al Cielo: erano infatti
le due del mattino del 4 agosto 1859, quando san Giovanni
Battista Maria Vianney, terminato il corso della sua
esistenza terrena, andò incontro al Padre celeste per
ricevere in eredità il regno preparato fin dalla creazione
del mondo per coloro che fedelmente seguono i suoi
insegnamenti (cfr. Mt 25, 34).
Quale grande festa
deve esserci stata in Paradiso all'ingresso di un così
zelante pastore! Quale accoglienza deve avergli riservata la
moltitudine dei figli riconciliati con il Padre, per mezzo
dalla sua opera di parroco e confessore! Ho voluto prendere
spunto da questo anniversario per indire l'Anno Sacerdotale,
che, com'è noto, ha per tema Fedeltà di Cristo, fedeltà
del sacerdote. Dipende dalla santità la credibilità della
testimonianza e, in definitiva, l'efficacia stessa della
missione di ogni sacerdote.
Giovanni Maria
Vianney nacque nel piccolo borgo di Dardilly l'8 maggio del
1786, da una famiglia contadina, povera di beni materiali,
ma ricca di umanità e di fede. Battezzato, com'era buon uso
all'epoca, lo stesso giorno della nascita, consacrò gli
anni della fanciullezza e dell'adolescenza ai lavori nei
campi e al pascolo degli animali, tanto che, all'età di
diciassette anni, era ancora analfabeta. Conosceva però a
memoria le preghiere insegnategli dalla pia madre e si
nutriva del senso religioso che si respirava in casa.
I biografi narrano
che, fin dalla prima giovinezza, egli cercò di conformarsi
alla divina volontà anche nelle mansioni più umili.
Nutriva in animo il desiderio di divenire sacerdote, ma non
gli fu facile assecondarlo. Giunse infatti all'Ordinazione
presbiterale dopo non poche traversìe ed incomprensioni,
grazie all'aiuto di sapienti sacerdoti, che non si fermarono
a considerare i suoi limiti umani, ma seppero guardare
oltre, intuendo l'orizzonte di santità che si profilava in
quel giovane veramente singolare.
Così, il 23 giugno
1815, fu ordinato diacono e, il 13 agosto seguente,
sacerdote. Finalmente all'età di 29 anni, dopo molte
incertezze, non pochi insuccessi e tante lacrime, poté
salire l'altare del Signore e realizzare il sogno della sua
vita. Il Santo Curato d'Ars manifestò sempre un'altissima
considerazione del dono ricevuto. Affermava: "Oh! Che
cosa grande è il Sacerdozio! Non lo si capirà bene che in
Cielo... se lo si comprendesse sulla terra, si morirebbe,
non di spavento ma di amore!" (Abbé Monnin, Esprit du
Curé d'Ars, p. 113). Inoltre, da fanciullo aveva confidato
alla madre: "Se fossi prete, vorrei conquistare molte
anime" (Abbé Monnin, Procès de l'ordinaire, p. 1064).
E così fu.
Nel servizio
pastorale, tanto semplice quanto straordinariamente fecondo,
questo anonimo parroco di uno sperduto villaggio del sud
della Francia riuscì talmente ad immedesimarsi col proprio
ministero, da divenire, anche in maniera visibilmente ed
universalmente riconoscibile, alter Christus, immagine del
Buon Pastore, che, a differenza del mercenario, dà la vita
per le proprie pecore (cfr. Gv 10, 11).
(...) "A chi
rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li
rimetterete resteranno non rimessi" (cfr. Gv 20,
23).
San Giovanni Maria
Vianney si distinse pertanto come ottimo e instancabile
confessore e maestro spirituale. Passando "con un solo
movimento interiore, dall'altare al confessionale",
dove trascorreva gran parte della giornata, cercava in ogni
modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di
far riscoprire ai parrocchiani il significato e la bellezza
della penitenza sacramentale, mostrandola come un'esigenza
intima della Presenza eucaristica (cfr. Lettera ai sacerdoti
per l'Anno Sacerdotale).
(...) Fu
"innamorato" di Cristo, e il vero segreto del suo
successo pastorale è stato l'amore che nutriva per il
Mistero eucaristico annunciato, celebrato e vissuto, che è
divenuto amore per il gregge di Cristo, i cristiani e per
tutte le persone che cercano Dio. La sua testimonianza ci
ricorda, cari fratelli e sorelle, che per ciascun
battezzato, e ancor più per il sacerdote, l'Eucaristia
"non è semplicemente un evento con due protagonisti,
un dialogo tra Dio e me. La Comunione eucaristica tende ad
una trasformazione totale della propria vita. Con forza
spalanca l'intero io dell'uomo e crea un nuovo noi"
(Joseph Ratzinger, La Comunione nella Chiesa, p. 80). Lungi
allora dal ridurre la figura di san Giovanni Maria Vianney a
un esempio, sia pure ammirevole, della spiritualità
devozionale ottocentesca, è necessario al contrario
cogliere la forza profetica che contrassegna la sua
personalità umana e sacerdotale di altissima
attualità.
Nella Francia
post-rivoluzionaria che sperimentava una sorta di
"dittatura del razionalismo" volta a cancellare la
presenza stessa dei sacerdoti e della Chiesa nella società,
egli visse, prima - negli anni della giovinezza - un'eroica
clandestinità percorrendo chilometri nella notte per
partecipare alla Santa Messa. Poi - da sacerdote - si
contraddistinse per una singolare e feconda creatività
pastorale, atta a mostrare che il razionalismo, allora
imperante, era in realtà distante dal soddisfare gli
autentici bisogni dell'uomo e quindi, in definitiva, non
vivibile.
Cari fratelli e
sorelle, a 150 anni dalla morte del Santo Curato d'Ars, le
sfide della società odierna non sono meno impegnative, anzi
forse, si sono fatte più complesse. Se allora c'era la
"dittatura del razionalismo", all'epoca attuale si
registra in molti ambienti una sorta di "dittatura del
relativismo".
Entrambe appaiono
risposte inadeguate alla giusta domanda dell'uomo di usare a
pieno della propria ragione come elemento distintivo e
costitutivo della propria identità. Il razionalismo fu
inadeguato perché non tenne conto dei limiti umani e
pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le
cose, trasformandola in una dea; il relativismo
contemporaneo mortifica la ragione, perché di fatto arriva
ad affermare che l'essere umano non può conoscere nulla con
certezza al di là del campo scientifico positivo. Oggi
però, come allora, l'uomo "mendicante di significato e
compimento" va alla continua ricerca di risposte
esaustive alle domande di fondo che non cessa di
porsi.
(...) Preghiamo
perché, per intercessione di san Giovanni Maria Vianney,
Iddio faccia dono alla sua Chiesa di santi sacerdoti, e
perché cresca nei fedeli il desiderio di sostenere e
coadiuvare il loro ministero. Affidiamo questa intenzione a
Maria, che proprio oggi invochiamo come Madonna della Neve.
qui
l'udienza del Papa
alla veglia di
preghiera con i sacerdoti, a conclusione dell'anno
sacerdotale (10
giugno 2010)
(...) ha parlato di
quanto è preziosa la vocazione del prete che vive la sua
vita unito a Cristo; quanto è banale una “teologia
arrogante” che non si basa sulla fede, un clericalismo
fuori del mondo, una vita da prete vissuta come un impiegato
“a ore”; l’importanza di aiutare i giovani a
discernere la loro chiamata e perfino l’importanza per i
sacerdoti di avere momenti di riposo. Il centro di tutta la
veglia è stato proprio il grande silenzio sceso sulla
piazza all’adorazione eucaristica, in cui il papa e i 17
mila si sono inginocchiati per interminabili minuti davanti
all’ostensorio scintillante, proseguita con la preghiera
del papa per l’Anno sacerdotale. La
veglia è iniziata verso le 20 (...)
Un sacerdote slovacco,
missionario in Russia, gli ha posto la domanda sul senso del
celibato ecclesiastico, preso così di mira nel mondo
contemporaneo. Il papa ha messo in luce anzitutto che il
celibato ha al centro il dono di tutta la propria vita a
Cristo. Nella celebrazione eucaristica (“Questo è il mio
corpo…”), “Cristo ci permette di usare il suo io, ci
attira a sé e ci unisce a Lui. Così il nostro io si unisce
al suo e realizza la permanenza del suo unico sacerdozio. E
attirando noi, è presente attraverso di noi nel mondo”.
Per il mondo “dove
Dio non centra” – ha aggiunto – “il celibato è un
grande scandalo”. Egli ha fatto notare che questo stesso
mondo che critica il celibato è anche quello dove non si ha
il coraggio di sposarsi, perché si diviene incapaci di
decisioni definitive, perché si vuole rimanere autonomi,
liberi da vincoli. La decisione del celibato, perciò, la
“consegna della propria vita all’io di Cristo” è il
sì definitivo, “che conferma il sì definitivo del
matrimonio”. Senza il celibato – e di conseguenza senza
il matrimonio – “scompare tutta la nostra cultura”. (...)
scarica
qui la la trascrizione integrale del "dialogo"
qui
l'articolo di AsiaNews sulla veglia
e all'omelia della
S.Messa conclusiva (11
giugno 2010)
(...) “Il
Signore è il mio pastore: non manco di nulla”: in questo
primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto
che Dio è presente e si occupa dell’uomo. La lettura
tratta dal libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema:
“Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura”
(Ezechiele 34, 11). Dio si prende personalmente cura di me,
di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito
nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane
sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è
un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo
poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere,
hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio
solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente egli
abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre
divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio
unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un
pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era
necessario occuparsi di lui. Egli non dominava. Stranamente,
questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si
comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore.
Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era
evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo
insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non
interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine
remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si
prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da
Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono
percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto.
È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi
vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo
che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di
me.
“Io conosco le mie
pecore e le mie pecore conoscono me” (Giovanni 10, 14),
dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore.
Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe
renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri
profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche
che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un
piccolo punto della storia, condividiamo le sue
preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo
essere persone che, in comunione con la sua premura per gli
uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro
sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E,
riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme
col Signore, dovrebbe poter dire: “Io conosco le mie
pecore e le mie pecore conoscono me”. “Conoscere”, nel
significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un
sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico
di una persona. “Conoscere” significa essere
interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi
dovremmo cercare di “conoscere” gli uomini da parte di
Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con
loro sulla via dell’amicizia con Dio.
Ritorniamo al nostro
salmo. Lì si dice: “Mi guida per il giusto cammino a
motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non
temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il
tuo vincastro mi danno sicurezza” (23 [22], 3s). Il
pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono
affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera
diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo
giusto l’essere uomini. Egli ci insegna l’arte di essere
persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non
sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto,
questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in
ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale
domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente
la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli
uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore,
abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo
sappiamo questo: egli stesso è la via. Vivere con Cristo,
seguire lui, questo significa trovare la via giusta,
affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un
giorno possiamo dire: “Sì, vivere è stata una cosa buona”.
Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio, perché egli
nei comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande
salmo 119 (118) è un’unica espressione di gioia per
questo fatto: noi non brancoliamo nel buio; Dio ci ha
mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo
giusto. Ciò che i comandamenti dicono è stato sintetizzato
nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così
capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono
la via che egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e
gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà
vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme
con Cristo facciamo l’esperienza della gioia della
Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente
la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via
giusta.
C’è poi la parola
concernente la “valle oscura” attraverso la quale il
Signore guida l’uomo. La via di ciascuno di noi ci
condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui
nessuno può accompagnarci. Ed egli sarà lì. Cristo stesso
è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì egli
non ci abbandona. Anche lì ci guida. “Se scendo negli
inferi, eccoti”, dice il salmo 139 (138). Sì, tu sei
presente anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro
salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura,
non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo,
però, pensare anche alle valli oscure della tentazione,
dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana
deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della
vita egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della
tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le
luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi
sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a
noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo
mostrare loro la tua luce.
“Il tuo bastone e
il tuo vincastro mi danno sicurezza”: il pastore ha
bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono
irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il
loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che
dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili.
Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa,
nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il
bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede
contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in
realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può
essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta
di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della
vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si
lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il
disfacimento della fede, come se noi autonomamente
inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la
perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo
stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il
vincastro del pastore, vincastro che aiuti gli uomini a
poter camminare su sentieri difficili e a seguire il
Signore.
Alla fine del salmo
si parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene
unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare
presso il Signore. Nel salmo questo esprime innanzitutto la
prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel
tempio, di essere ospitati e serviti da lui stesso, di poter
abitare presso di lui. Per noi che preghiamo questo salmo
con Cristo e col suo corpo che è la Chiesa, questa
prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza ed una
profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole,
per così dire, un’anticipazione profetica del mistero
dell’eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se
stesso a noi come cibo, come quel pane e quel vino squisito (...)
qui
il blog dell'Anno Sacerdotale
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PREGHIERA PER L’ANNO
SACERDOTALE
Signore
Gesù,
Tu
hai voluto donare alla Chiesa, attraverso
San Giovanni Maria Vianney, un’immagine
viva di Te, ed una personificazione della
Tua carità pastorale.
Aiutaci,
in sua compagnia ed assistiti dal suo
esempio, a vivere bene quest’Anno
Sacerdotale.
Fa
che possiamo imparare dal Santo Curato
d’Ars il modo di trovare la nostra gioia
restando a lungo in adorazione davanti al
Santissimo Sacramento; come la Tua Parola
che ci guida sia semplice e quotidiana; con
quale tenerezza il Tuo Amore accolga i
peccatori pentiti; quanto sia consolante
l’abbandono fiducioso alla Tua Santissima
Madre Immacolata; quanto sia necessario
lottare con vigilanza contro il Maligno.
Fa,
o Signore Gesù, che i nostri giovani
possano apprendere dall’esempio del Santo
Curato d’Ars, quanto sia necessario, umile
e glorioso il ministero sacerdotale che Tu
vuoi affidare a quelli che si aprono alla
Tua chiamata.
Fa
che nelle nostre comunità – come ad Ars a
quel tempo – ugualmente si realizzino
quelle meraviglie di grazia che Tu compi
quando un sacerdote sa “mettere l’amore
nella sua parrocchia”.
Fa
che le nostre famiglie cristiane si sentano
parte della Chiesa – dove possono sempre
ritrovare i Tuoi ministri – e sappiano
rendere le loro case belle come una chiesa.
Fa
che la carità dei nostri Pastori nutra ed
infiammi la carità di tutti i fedeli,
affinché tutte le vocazioni e tutti i
carismi donati dal Tuo Santo Spirito possano
essere accolti e valorizzati.
Ma
soprattutto, o Signore Gesù, concedici
l’ardore e la verità del cuore perché
noi possiamo rivolgerci al Tuo Padre
Celeste, facendo nostre le stesse parole che
San Giovanni Maria Vianney utilizzava quando
si rivolgeva a Lui:
“Vi
amo mio Dio, e il mio unico desiderio è di
amrVi fino all’ultimo respiro della mia
vita.
Vi
amo, o Dio infinitamente amabile, e desidero
ardentemente di morire amandovi, piuttosto
che vivere un solo istante senza amarVi.
Vi amo
Signore, e la sola grazia che Vi chiedo è
di amarVi in eterno.
Mio Dio,
se la mia lingua non può ripetere sempre
che io Vi amo, desidero che il mio cuore Ve
lo ripeta ad ogni mio respiro.
Vi amo,
o mio Divin Salvatore, perché siete stato
crocifisso per me;
e perché
Voi mi tenete crocifisso quaggiù per Voi.
Mio
Dio, fatemi la grazia di morire nel amandoVi
e sentendo che io Vi amo”
AMEN
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