Superuomo
civilizzato, che si fa da sé...
di
Don Pierangelo Sequeri
Il rotolo della sua preghiera, contro
l'orribile crimine "che la megalomania disumana e
l'odio razzista dell'ideologia nazista portarono in
Germania", Papa Benedetto XVI l'ha incastrato - in
lingua tedesca - nel filo spinato di Auschwitz, i cui
cancelli furono dolorosamente aperti, 65 anni fa, sul dolore
che vi era stato rinchiuso.
Rinchiuso per un tempo infinito che
non finirà mai di passare, finché ci sarà storia di
uomini. Papa Giovanni Paolo II, il rotolo della condanna e
della supplica lo aveva silenziosamente introdotto nelle
ferite del Muro del Pianto, a Gerusalemme.
Il suo, Benedetto XVI lo ha fatto
idealmente risuonare dalla spianata del luogo che, nella
parlata più comune dei popoli, è il nomesimbolo della
Shoah, dell'orrore per il quale non si hanno abbastanza
parole. Lo ha fatto nell'idioma e nei suoni della lingua in
cui quell'orrore ha trovato parole per concepirsi,
comunicarsi, pianificarsi: e questa lingua è la sua
propria. Un simbolo forte, al quale il Papa si è
coraggiosamente esposto, con quello stile sobrio e diretto
che gli è proprio. Le parole, a volte, sono anche più
potenti e irrevocabili dei gesti. Quello stesso idioma, che
ha plasmato la memoria ferita, nomina ora la violenza di
quella ideologia sterminatrice come una concentrazione
assoluta del male.
Siamo colpiti, in questa rinnovata
proclamazione dell'orrore, senza reticenze, da
un'impressione il cui insegnamento ammonisce e trafigge, con
dolorosa esattezza, l'irresponsabile svagatezza del nostro
presente. Una lingua materna (materna!) poté essere
sfigurata fino a tal punto. E fino a tal punto essere
indotta a corrompere e contraddire il senso della
generazione all'umano: che proprio l'affettuosa parlata
della madre, insostituibilmente, rende umana.
D'improvviso, siamo dolorosamente
avvertiti: ogni lingua materna può entrare in questa
terribile contraddizione con se stessa. Non ci sono lingue
razziste, non ci sono popoli maledetti. Ma le lingue materne
possono essere stuprate dalla perversione del cuore e dalla
presunzione della mente: rendere familiare persino
l'assuefazione al sacrificio dell'inerme, nobilitare
l'indecenza dell'ostilità razziale, rendere politicamente
corretta la mediocre prepotenza del branco.
E lungo questa via, spianare, per
intere generazioni, la strada di un 'conflitto di civiltà'
che interpreta il genocidio come pulizia etnica e soluzione
finale. È terribile soltanto doversi esprimere, con queste
parole.
Eppure bisogna esporvisi, proprio per
dare forza alle opposte parole che, nella stessa lingua,
devono ostinatamente richiamare il senso autentico
dell'idioma materno: il quale è ferito nell'intimo, con
danni irreparabili, tutte le volte che dimentica la
fraternità dell'umano che dà senso alla generazione.
Una natura umana, comune e condivisa,
nella quale siamo generati sin dal grembo materno, esiste.
Contraddirla, conduce presto o tardi all'orrore
incontenibile e innominabile. I sofismi del superuomo
civilizzato, che si fa da sé, si misurino con la memoria
dei cancelli di Auschwitz, se gli regge il cuore.
Neanche per un giorno, manchi di
risuonare, in ciascuna lingua, la parola "dell'assoluto
rispetto della dignità della persona e della vita
umana". Perché l'orrore che acceca il mondo e ferma la
storia incomincia dalla selezione degli umani. Perché
questa non è un'esagerazione della profezia, è il racconto
del grande buco nero che si è aperto appena ieri.
Fino a che ci saranno padri e madri i
quali ("persino a rischio della vita") daranno
testimonianza della necessità di opporsi a simile 'follia',
ciascuno nella propria lingua, la storia di tutti non
proseguirà invano.
E la generazione non rimarrà a tal
punto priva di senso, da non poterlo più ritrovare. In
questo giorno, va detto, per tutti i giorni del mondo. In
questa lingua va pronunciato, per tutte le lingue materne
del mondo. Compresa la nostra.
Fonte: Avvenire
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