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  Sei ormai parte della famiglia...

  Intervista a padre Samir Khalil
 
(a proposito del Sinodo per il Medio Oriente)

 

In quest’intervista a ZENIT, padre Samir Khalil, esperto d’Islam e di storia del Medio Oriente, offre un quadro storico-religioso della situazione attuale nella regione, analizza le sfide più urgenti e propone alcune possibili soluzioni concrete.

Pur non essendo l’unico argomento trattato dai padri sinodali, si nota però che un grande rilievo è stato dedicato all’aspetto geopolitico della presenza cristiana in Medio Oriente e in particolare al loro rapporto con l’islam. È forse questo l’aspetto più importante e veramente decisivo per la loro esistenza e permanenza in Medio Oriente?

Samir Khalil: Non v’è dubbio che essendo una minoranza che non supera il 10% della popolazione del Medio Oriente - mentre la stragrande maggioranza è di religione musulmana - la nostra esistenza dipende dal beneplacito di questa maggioranza, soprattutto perché l’islam si concepisce come Stato e religione. E siccome da più di 30 anni ormai la maggioranza degli Stati mediorientali ha adottato un approccio islamista alla realtà statale, dove la religione decide tutti i particolari della vita quotidiana, sociale e politica, va da sé che in queste condizioni la nostra situazione dipenda dal buon volere dei musulmani e dal sistema islamico. Non c’è da stupirsi, allora, se la questione ha occupato un grande rilievo come lei nota giustamente.

Lei è di origine egiziana, ma vive in Libano, ed essendo esperto dell’islam si trova spesso a contatto diretto con i musulmani. Come descriverebbe il suo rapporto con loro?

Samir Khalil: Faccio subito una distinzione tra i musulmani presi singolarmente e i sistemi islamici, semplicemente perché con i musulmani presi singolarmente è possibile instaurare un bellissimo dialogo e un confronto interculturale e religioso.

Mi permetta di raccontare un aneddoto a conferma di quanto dico: ieri sera mi ha contattato su skype un musulmano sunnita del nord del Libano, incontrato per caso su un aereo un mese fa. Il nostro dialogo si è concentrato sulla Trinità e sulla preghiera. Durante la conversazione mi ha detto: «dottore, vorrei presentarle mia moglie». In Oriente, questo gesto vuol dire che sei ormai parte della famiglia. Quindi, preso singolarmente il musulmano – paradossalmente – è molto più vicino a noi cristiani orientali di un cittadino europeo. C’è un senso religioso che ci accomuna e ci unisce. Ma se dobbiamo parlare dell’islamismo, il discorso cambia radicalmente perché si tratta di un progetto politico a sfondo religioso. Come cristiani orientali, vorremmo essere trattati semplicemente come cittadini con una Costituzione che trascende tutte le religioni. Ma nella maggior parte dei casi nei nostri Paesi la Costituzione è basata essenzialmente – se non totalmente – sulla legge islamica. E questo è il nostro problema. A parte pochi casi come il Libano, gli Stati anche costituzionalmente laici, come sarebbe il caso della Tunisia, della Siria o della Turchia, sono culturalmente Paesi islamici e privilegiano i cittadini di religione musulmana.

Il revival islamico è un fenomeno molto complesso che ha diverse origini: le correnti del ressourcement come il Wahhabismo; la lettura antagonista dell’Occidente presentata a metà del XX secolo da personaggi come Sayyed Kotb, fondatore dei fratelli musulmani; i diversi pregiudizi culturali che fanno coincidere erroneamente Occidente e cristianesimo; le ultime guerre americane considerate come crociate contro l’islam; la grave parzialità occidentale nel conflitto israelo-palestinese. Ma qual è secondo lei il perno di quest’esponenziale sviluppo dell’islamismo politico e del fondamentalismo islamico?

Samir Khalil: Da una parte c’è un’ondata islamista che nasce agli inizi degli anni Settanta. A partire dal 1973 è accaduto un fenomeno economico in seguito alla guerra tra Israele e Paesi arabi, che ha visto il prezzo del greggio quadruplicarsi in pochi mesi. Così i Paesi petroliferi si sono trovati improvvisamente con una montagna di petrodollari. L’Arabia Saudia, non sapendo cosa fare di questa immensa fortuna ne ha impiegato un'ampia parte nella costruzione di moschee e scuole islamiche. L’Arabia Saudita ha finanziato i Fratelli Musulmani in Egitto e il loro progetto era chiaro: islamizzare la società egiziana perché non era abbastanza musulmana. In seguito, ha fatto la stessa operazione in tutti i Paesi del Medio Oriente. Così agli inizi degli anni Ottanta, i Fratelli Musulmani sono diventati così numerosi da essere considerati come un pericolo in Siria e il presidente siriano Hafiz al-Asad li ha soggiogati con la forza.

L’Indonesia, un paio di decenni fa, era considerata il paradiso della libertà religiosa in un Paese musulmano, tanti sacerdoti erano ex convertiti dall’islam. Adesso questo è un fenomeno impossibile. Lo stesso in Nigeria: nell’ultimo decennio il numero delle province che applicano la legge islamica è salito da 4 a 12. L’Europa, con circa il 5% di musulmani si sente già invasa e minacciata. Così il canceliere tedesco Angela Merkel ha lanciato l’allarme pochi giorni fa annunciando il fallimento del modello d’integrazione, perché sono proprio loro a non volersi integrare. E perché non si integrano? Perché hanno un progetto religioso, mentre gli Stati dove vivono hanno progetti nazionali areligiosi.

Di fronte a questa situazione alquanto complessa e critica, cosa ha fatto il Sinodo dei Vescovi e cosa intende fare?

Samir Khalil: Noi cristiani d’Oriente viviamo in mezzo a questo fenomeno in fieri, dove l’islam guadagna piede giorno dopo giorno, a tal punto che nella Lega Araba il primo argomento è sempre questo: come affrontare l’islamismo. E il Sinodo sta dedicando particolare attenzione al rapporto con l’islam. Le sedute sinodali si interrogano sul perché la gente lasci la propria terra, la culla del cristianesimo. Nel mondo arabo non c’è persecuzione contro i cristiani, ma c’è discriminazione. I cristiani non sono trattati nello stesso modo dei musulmani. I musulmani sono i cittadini normali destinatari delle leggi. Gli altri, costituzionalmente, sono cittadini, ma concretamente le leggi – in quanto fatte a partire dal sistema musulmano – lasciano i cristiani in una condizione svantaggiata. Inoltre, la libertà di coscienza è inesistente, esiste solo la tolleranza che consiste nel sopportare che il cristiano rimanga in terra islamica ma con tanti limiti. Non è possibile, però, lasciare l’islam per un’altra religione. Tutte queste situazioni sono state negli ultimi giorni al centro dell’attenzione dei padri sinodali.

La diagnosi offerta tocca diverse cause di sofferenza per i cristiani d’Oriente, ma allora la domanda che si pone è: c’è una via d’uscita, oppure le proposte e i propositi sono solo utopia e rimarranno solo come prognosi riservata?

Samir Khalil: C’è un’unica via d’uscita, quella di puntare a certi concetti condivisi, come quello di «cittadinanza» o della «appartenenza araba», entrambi riconosciuti da gran parte dei musulmani. I movimenti che promossero questi valori agli inizi del XX secolo ebbero tanto successo perché portavano con sé un soffio di novità che invitava a uscire dalla visione tribale; ma ultimamente questa visione è stata accantonata e sostituita dal concetto dell’Umma [La nazione] islamica. Durante la presidenza di Nasser, fino alla metà degli anni '70, il concetto era la Umma al-Arabiyya [la nazione araba], ma dalla metà degli anni '70 in poi è prevalso il concetto dell’Umma al-Islamiyya [la nazione islamica], che non lascia spazio ai non musulmani. La soluzione è di cercare di proporre, musulmani e cristiani, un concetto moderno di Stato, non solo a livello politico, ma anche a livello culturale.

La proposta è concreta, ma alquanto irrealizzabile nello scenario culturale dell’Oriente. Come si può fare affinché il fattibile diventi fattivo?

Samir Khalil: Proprio qui subentra la proposta del Sinodo per il Medio Oriente: non si tratta di fare un progetto cristiano, e tantomeno un progetto dei cristiani o per i cristiani, perché così riflettiamo come se fossimo una minoranza che cerca di proteggersi. Noi non cerchiamo di proteggerci, ma quello che diciamo riflette la parola anche di tanti musulmani che riconoscono come noi che la nazione araba sta male perché soffre di una defaillance nell’esercizio della democrazia, nella distribuzione delle ricchezze e nello stabilimento della giustizia sociale e di uno Stato di diritto, nella riforma del sistema sanitario. L’islam è molto sensibile a queste dimensioni. La libertà di coscienza e di espressione è auspicata da tanti, e questo non perché la gente vuole allontanarsi dall’islam, ma perché vuole vivere l’islam in un modo più personale. Nel mondo islamico c’è un senso di modernità e di libertà che non osa manifestarsi. Un cristiano può scrivere criticando il suo patriarca o vescovo, mentre è difficile per un musulmano farlo. Non perché qualcuno in particolare glielo vieti, ma perché la cultura stessa glielo impedisce. Gli imam sono gli ulema [i dotti] e il loro sapere non si discute. E ribadisco che con le suddette proposte non si tratta di rendere i musulmani meno musulmani o i cristiani meno cristiani ma di dire che la fede è una questione personale anche se ha la sua dimensione sociale, e ognuno deve vivere la propria fede come gli viene inspirata da Dio.

La proposta di «laicità positiva» non può avere successo in ambito islamico perché la laicità – ‘elmaniyya in arabo – suona come allontanamento da e abbandono di Dio a favore della mondanità. Crede che l’altro concetto proposto, ossia lo «Stato civico» avrà più fortuna, o l’Oriente sceglierà la proposta islamista il cui slogan è «al-islam huwa l-?all», [l’islam è la soluzione/risposta], deluso dal fallimento religioso, morale e identitario dell’Occidente?

Samir Khalil: L’Occidente, a dire il vero, è andato troppo lontano fino a dissolvere le radici della propria identità. Ricordiamoci del discorso del Papa a Regensburg nel 2006 dove la critica era essenzialmente alla cultura occidentale che è andata oltre l’Illuminismo fino a identificare la cultura con il materialismo.

La sua domanda fa riferimento alla forza dell’islam integralista. Il ragionamento degli integralisti è il seguente: l’Occidente ha un progetto di civiltà, ma il suo modello è un modello di corruzione: la perversione e il libertinaggio sessuale, l’adulterio, la dissoluzione della famiglia, l’aborto… è un progetto inaccettabile per l’islam che lo vede come corrotto e lontano da Dio. La modernità predicata dall’Occidente è ormai sinonimo di ateismo e immoralità. Per loro il cristianesimo, identificato a sua volta con l’Occidente, è finito. Similmente, il marxismo e il socialismo hanno fallito agli occhi di tutti. La soluzione è l’islam, e la prova è che quando in passato abbiamo applicato l’islam alla lettera abbiamo conquistato tutto il mediterraneo. È questo il ragionamento che ha fatto Gheddafi quando ha visitato l’Italia di recente: «L’Europa nel 2050 sarà a maggioranza musulmana». La sua previsione si avvererà se l’atteggiamento dei cristiani non cambia.

Tanti cristiani orientali sono stanchi delle esortazioni a rimanere nelle loro terre, soprattutto perché queste esortazioni vengono da chi vive nell'Occidente ricco e libero. Gli atti degli apostoli al capitolo ottavo parlano della prima persecuzione dei cristiani, che disperse la comunità (ad eccezione degli apostoli). Questo evento negativo, si rivelò successivamente come un kairos che permise ai cristiani di diffondere il Vangelo altrove. Non crede che la situazione attuale che sta causando l’esodo e la fuga dei cristiani possa essere un segno dei tempi?

Samir Khalil: Tante persone in Medio Oriente mi dicono: «Rimanere qui diventa sempre più difficile. E sebbene ancora ce la facciamo, non sappiamo però come sarà per i nostri figli». Io do una riposta in tre punti: in primo luogo, nessuno ti può obbligare a rimanere. Ogni famiglia ha il diritto di decidere dove vivere e come. Non tocca a noi perché siamo preti dire loro se devono rimanere. Aggiungo, però, un secondo punto: se a livello personale, forse è meglio per te emigrare in Canada o in Australia o in Francia, non lo è a livello comunitario e generale: se tutti facessero come te, questa regione si ritroverebbe presto senza cristiani; proprio nella terra della nascita del cristianesimo non ci sarebbero più cristiani. Abbiamo quindi una grande vocazione e responsabilità.

Il terzo punto: se ci troviamo tutti nella diaspora, possiamo ancora mantenere la nostra identità orientale? È difficile mantenere la cultura e la tradizione d’origine più di due o tre generazioni. E questo, di nuovo, non è un problema personale, ma un problema a livello di Chiesa universale: se una tradizione orientale sparisce, questo costituisce per tutta la Chiesa una grande perdita. Giovanni Paolo II diceva che la Chiesa ha due polmoni, la Chiesa orientale e la Chiesa occidentale. Se una di queste realtà venisse a mancare, la Chiesa si ridurrebbe a un solo polmone e le mancherebbe il respiro.

Pertanto, dico ai cristiani: che voi emigriate o rimaniate, non è questa la vera questione; la cosa essenziale è mantenere la vostra fede. Proponete la fede ai vostri figli; e se vedete dove andate che molti cristiani non hanno più fede trasmettetegliela.

Ciò che lei dice a partire dal libro degli Atti è che la missione è partita da un evento difficile imprevisto, e che si è rivelato come una chance per la fede stessa. Ma questo è accaduto a una sola condizione: avevano il fuoco della fede nel cuore. Se noi, invece, partiamo avendo nel cuore la brama del denaro, la nostra emigrazione non porterà a nulla. L’essenziale è che questo fuoco del Vangelo rimanga nel cuore. Se rimani in Egitto, Libano e Siria mantieni questo fuoco per trasmetterlo ai fratelli dell’islam. Se vai in America o altri Paesi, trasmettilo ai tuoi nuovi concittadini.

È sufficiente dare consigli e orientamenti pastorali ai cristiani d’Oriente per farli rimanere in Oriente? Non crede piuttosto che sia necessario sostenerli economicamente, sapendo che in Libano, ad esempio, gli sciiti sono stati fortemente sostenuti economicamente dall’Iran e i sunniti dai paesi del Golfo, e questo fatto gli ha permesso di migliorare la loro condizione sociale e politica?

Samir Khalil: Credo che il nostro problema in Medio Oriente non sia finanziario. Prendiamo il caso del Libano: nel Paese abbiamo dei miliardari in ogni quartiere di Beirut. Ci sono tante opere di carità in Libano lanciate dai cristiani. Gli aiuti pervenuti dall’estero, cui lei accenna, vengono come parte di una propaganda politica che la Chiesa non può fare perché essa non è una nazione. E non esiste nessuna nazione cristiana per farlo. Certamente gli immigrati possono aiutare, e sappiamo che molti immigrati contribuiscono al sostentamento dei loro familiari. Questo aiuto può essere migliorato, ma non è ciò che risolve il problema. C’è bisogno di progettazione, di offrire progetti chiari e sicuri, di modo che i soldi da chiedere ai benefattori cristiani abbiano un percorso rintracciabile, e non vengano rubati lungo il loro percorso fino alle opere concrete. E in questo il nostro clero non dona bei esempi di affidabilità visto l’attaccamento poco evangelico alle apparenze e alle ricchezze. Quindi risuona di nuovo l’invito alla conversione, a purificare la nostra vita per renderla più consona al Vangelo.

Il Sinodo è stato coperto principalmente da due sole reti televisive mediorientali (entrambe libanesi). Si lamenta pure la scarsa copertura dei media italiani. A che cosa è dovuto questo fatto: al pregiudizio che quello che i Vescovi diranno rimarrà solo inchiostro su carta? All’indifferenza verso ciò che vive e dice la Chiesa? Oppure al disinteresse riguardo al Medio Oriente?

Samir Khalil: Mi domando forse se il fatto sia semplicemente dovuto alla presenza di pochi giornalisti arabi che seguono le notizie a Roma. O forse si sono chiesti: ma che cosa può fare un Vescovo per cambiare la situazione in Iraq, in Palestina o in Libano? I cattolici sono una piccola minoranza in Egitto quindi i copti e i musulmani se ne disinteressano. Gli unici che possono seguire il Sinodo sia per interesse sia per capacità sono i giornalisti del Libano.

Per quanto riguarda i giornali occidentali credo che partano da un concetto di consumismo: non confezionano un prodotto se non sanno che venderà e che porterà guadagno. Le testate purtroppo non valutano l’importanza degli argomenti e degli eventi in sé ma si lasciano condizionare dall’audience. Uno scoop scandalistico o sessuale vende molto di più di un Sinodo che cerca lentamente la sua strada. Alcune volte la colpa è nostra. La gente non viene informata né sugli eventi né sul loro senso e neppure sulla loro importanza. Credo che in questo ambito il Libano faccia tanto: tramite ZENIT, Télé Lumière o Lbc. Questo contributo mediatico dona al Libano il suo posto d’avanguardia per tutti i cristiani in Medio Oriente.

Per concludere, secondo lei quali sono gli atteggiamenti che renderanno fruttuoso l’investimento di risorse umane ed economiche in questo Sinodo?

Samir Khalil: Credo che l’atteggiamento principale che devono assumere i partecipanti sia la sincerità, e il senso critico per puntualizzare con schiettezza e chiarezza ciò che non va, ciò che va e ciò che è migliorabile. Per quanto riguarda l’atteggiamento che auspico per i cristiani d’Oriente, credo che debbano avere a priori uno sguardo favorevole. In fondo, nel Sinodo si investono tante risorse positive: si parla di migliaia di ore di lavoro e di fatica che coinvolgono un gran numero di persone impegnate a fare del loro meglio. Perciò direi che l’atteggiamento corrispondente dei cristiani debba essere la serietà: si tratta del nostro futuro, non del futuro dei Vescovi, ma del futuro di diversi milioni di cristiani e non solo dei cattolici.

Nel suo intervento il signor Mohammad Sammak ha ribadito il ruolo che i cristiani hanno giocato nel formare l’identità del Medio Oriente, affermando che senza di loro la nostra società non sarebbe più quella che è. I cristiani hanno giocato nella storia passata e recente un ruolo fondamentale arricchendo la società araba, culturalmente sociologicamente, politicamente e spiritualmente. Affinché questo ruolo non sia un ricordo del passato ma una realtà del presente i cristiani – Vescovi e fedeli – devono privilegiare la comunione – non solo tra di loro ma anche con gli altri, con i musulmani. E devono anche vivere la missione, non nel senso di un proselitismo sbiadito, ma vivere l’essenza del Vangelo che è un annuncio, una bella notizia di cui noi, modestamente, siamo araldi.