Io musulmano e il sangue dei cristiani d'Iraq
di Younis Tawfik
Sono nato sotto un campanile.
Sembra strano detto da un musulmano e forse sa anche un po'
di compiacimento, ma non è così. Non l'avevo scelto io e
nemmeno i miei genitori che a loro volta erano nati in quel
vecchio quartiere nel cuore della capitale del nord
dell'Iraq, l'antica Ninive, oggi chiamata Mosul.
Sentivo l'impulso della vita
attraversare le vie della città con il tocco dell'orologio
che venendo da lontano si perdeva nei cuori come il canto
dell'amore. È il campanile della chiesa latina, costruita
dai padri domenicani arrivati a Mosul nel 1750, provenienti
dall'Italia e più tardi dalla Francia. La chiesa era stata
inaugurata il 4 agosto del 1873 con una Messa solenne,
seguita da una festa che aveva coinvolto tutta la città. La
torre dell'orologio, invece, alta cinquanta metri, cinque in
meno del minareto della moschea anNouri costruita nel
1146, porta un grosso orologio, visto da tutti i quattro
lati. Era arrivato dalla Francia nel 1882, omaggio di Maria
Giuseppina imperatrice dei francesi. È ancora oggi in
funzione, e in città si dice che non si è mai fermato. La
gente aspetta il segnale dell'ora con il suo suono
singolare, che fa parte del ritmo quotidiano ed è in
armonia con la voce del muezzin della vicina moschea.
Al centro del quartiere cristiano,
abitato anche da famiglie musulmane, e attorno alla grande
piazza e proprio sotto il campanile, si svolgeva la vita
commerciale della città. Nel caffè frequentato da mio
padre, tutti i giorni dopo la preghiera del pomeriggio, al
mattino presto si radunavano i braccianti per prendere
accordi con gli imprenditori e dopo due ore arrivavano
impiegati, soldati e studenti per prendere una tazza di tè
o di latte caldo prima di avviarsi verso i propri impegni.
Nessuno faceva caso se la persona seduta al tavolo vicino
era di fede cristiana o musulmana, erano tutti figli di
quella città e portavano i medesimi nomi. Per la maggior
parte erano nomi di profeti citati sia nella Bibbia sia nel
Corano. Nella tipografia domenicana di quel quartiere
fondata nel 1858 sono stati stampati circa 500 titoli,
compresa la prima rivista irachena, Iklil al-Ward nata nel
1902. In quella chiesa e nella scuola vicina era nato il
teatro iracheno moderno, la musica e la nuova letteratura.
Da ragazzino avevo conosciuto padre Yousuf Habbi, laureato
alla Cattolica in Letteratura comparata, membro
dell'Accademia scientifica irachena e uomo di grande
apertura.
Allora cercavo un'edizione
integrale della Divina Commedia, avevo scoperto alcuni versi
tradotti in arabo, e la trovai proprio da lui. Mi prese per
mano per aiutarmi a camminare verso la luce della
riconciliazione e della conoscenza. Mi aveva guidato nella
tenebra della ignoranza per scoprire la sapienza di Dante e
la sua profonda conoscenza della cultura islamica
dell'epoca. Furono quei pochi passi che separavano casa mia
dalla sua camera costruita in un angolo del cortile della
chiesa che io percorsi una volta alla settimana per due anni
a diventare un ponte lungo una vita, che arrivò fino a
Roma. Sono stati i versi di Dante, la sete per la conoscenza
e l'amore per la bellezza a spronarmi a imparare la lingua
italiana per poter leggere direttamente la poesia che mi
aveva riempito il cuore. Il mio quartiere è grande quanto
la mia patria.
È tutta una nazione nata nel seno
della molteplicità di fedi e culture e conserva la sua
forza in quella varietà, ma a loro, i cristiani dell'Iraq e
del Medio Oriente, dobbiamo la nostra Nahda, il nostro
risveglio e la rinascita della nostra letteratura, dell'arte
e la ripresa della ricerca scientifica. In questi giorni le
loro urla di dolore mi arrivano da lontano come un vecchio
lamento iracheno. La nostra patria è fatta di dolore e di
sangue, che dall'alba dei tempi continua a scorrere. Il
cuore si lacera all'udire il pianto dei bimbi maciullati
dalle bombe e i corpi di innocenti fatti a pezzi nelle
chiese dove si pregava per l'Altissimo e nelle case che
dovevano essere sicure.
Mi trovo nella disperazione
dell'impotente ad ascoltare invocazioni d'aiuto e lamenti
soffocati dal dolore, di donne che hanno perso i loro cari
per mano di assassini che non conoscono né Dio né la
pietà. Avevo scelto l'esilio per fuggire alla repressione
della tirannia, per essere libero sotto la tenda della
democrazia e di valori che avrei voluto per la mia gente e
per tutelare le minoranze del mio Paese.
Allora erano i valori umani, il
fatto di essere figli della stessa terra a proteggere gli
arabi cristiani; erano i principi dei nostri padri, il loro
innato buon senso, la generosità e la semplicità a farci
vivere insieme sotto un unico cielo e tra due fiumi.
Due anni fa qualcuno ha impugnato
l'arma e si era recato davanti a casa mia, a Mosul, era
sceso indisturbato dalla sua automobile e aveva sparato un
colpo alla testa di mio fratello Faris, avvocato, dal
cancello del giardino. Stava innaffiando le sue rose, venne
ucciso la sera prima delle nozze e proprio durante il mese
di Ramadan.
Una settimana dopo la stessa sorte
toccò a un suo vicino di casa, un medico cristiano appena
sposato, ammazzato sulla porta della sua abitazione. Due
vittime, come tante altre, di un piano diabolico per
ripulire il Paese dalla sua classe colta, da medici,
avvocati, magistrati, docenti universitari.
Anche allora, come oggi, ero
impotente nella mia disperazione e pregavo per la mia terra
lontana che continua a ferirmi il cuore.
Fonte: Avvenire
|