Non erano soldi veri?...
(la
crisi che ferisce l'Europa è spirituale)
di
Don Pierangelo Sequeri
La crisi che ferisce l'Europa è
spirituale e morale. In altri termini, ci sono rimasti pochi
spiccioli in tasca, dell'eredità immensa che l'alleanza del
cristianesimo e dell'umanesimo aveva accumulato in
Occidente, facendola fiorire in tutto il suo raggiunto
splendore nei nostri primi 'secoli d'oro', ossia i secoli
XII, XIII e XIV dell'era cristiana (proprio quelli che la
pigrizia degli ignoranti continua a ricordare come 'secoli
bui'). Come il figlio prodigo della celebre parabola
evangelica, ad un certo punto abbiamo incominciato a
venderci l'argenteria di famiglia, pur di finanziare la
nostra spensieratezza ('del doman non v'è certezza').
Abbiamo preteso dal cristianesimo la nostra parte e ce la
siamo portata via, per giocarcela in borsa, cambiando tutte
le etichette per rendere irriconoscibile la sua provenienza.
Non erano soldi veri? Beh, come sappiamo dalle cronache -
non si parla d'altro - adesso sono finiti anche quelli. Non
c'è nesso? Date tempo al tempo, e verrà fuori anche
quello. Non per caso, Gesù ha detto che con Cesare, a certe
condizioni si può trattare: con Mammona, mai. Il papa
Benedetto XVI, parlando ai Vescovi del nostro Paese, ha
ricordato la pressione che la povertà spirituale e morale
di questo passaggio d'epoca esercita su di noi e sui nostri
contemporanei. "Il patrimonio spirituale e morale in
cui l'Occidente affonda le sue radici e che costituisce la
sua linfa vitale, oggi non è più compreso nel suo valore
profondo, al punto che più non se ne coglie l'istanza di
verità. Anche una terra feconda rischia così di diventare
deserto inospitale e il buon seme rischia di venire
soffocato, calpestato e perduto".
E qui il Papa lancia il suo affondo,
che ci riguarda. Il nostro "primo, vero e unico compito
rimane quello di impegnare la vita per ciò che vale e
permane, per ciò che è realmente affidabile, necessario e
ultimo". Noi siamo credenti. Sappiamo che la
possibilità di avere un felice rapporto con Dio è
l'orizzonte del destino per ogni uomo. E abbiamo il compito
di coltivare questa relazione, in favore di terzi. Il
discorso 'su Dio', che non rivela vitalità e franchezza di
discorso 'con Dio', perde peso, evapora. Ecco la svolta:
dobbiamo ritornare "noi stessi per primi a una profonda
esperienza di Dio". Se il Papa chiede ai Vescovi di
"tornare noi stessi, per primi, a una profonda
esperienza di Dio", e dice che questo è "il
nostro primo, vero e unico compito", vuole dire che il
tempo degli esperimenti promozionali e delle riconversioni
aziendali, dei tavoli di concertazione e delle auto-conferme
d'ufficio, è proprio finito. Non è il nostro metodo,
questo. La genuina e rocciosa semplicità del principio,
ancora una volta, è il segreto di un nuovo inizio.
La nostra profonda relazione con Dio,
individuale e comunitaria, è il seme della fede che sposta
le montagne e fa camminare gli alberi. Quello che si vede
lì, farà la differenza. Nel tempo della grande fame e sete
della giustizia di Dio, che sta per venire, un immenso
popolo di ragazzi e ragazze, di ritorno dalle delusioni alle
quali sono stati abbandonati, cercherà quello. Sbagliando,
gliene abbiamo fatto una colpa. Erano già generazioni
partorite nel deserto, non per loro scelta. Quando si
metteranno in cerca di cibo solido, rischieranno di
travolgere padri e madri, facendo del male a loro stessi. In
quel momento, devono trovare uomini e donne che, invece di
giudicarli, mostreranno che li stavano aspettando per
festeggiare: saldamente di fronte a loro, e ben piantati in
Dio.
I nostri puntigliosi decori, che
abbelliscono otri screpolati, e le nostre faccette
professionalmente compunte, che ammiccano all'offerta più
conveniente, non le vedranno neanche.
Ma che siamo uomini e donne 'di Dio',
nel quale c'è amore per il riscatto di ogni perdutezza,
quello lo vedranno. Eccome, se lo vedranno.
Fonte: Avvenire
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