... E cominciai… .
Beato
Padre Clemente
Vismara (PIME)
Che ho fatto in tutta la mia
vita missionaria? Nel lontano 1924, giovane e bello, con le
pupille color del mare, fui lanciato inesperto tutto solo in
un bosco, a sei giorni da cavallo dai miei confratelli e mi
fu detto, “Sviluppati”.
15
giugno, Festa del Beato
Padre Clemente Vismara
- PIME
Mi era compagno un catechista,
un cavallo da sella e due da porto. Due cattolici in una
terra per me ancora sconosciuto e inospitale. Quanto a
soldi, pochi! Casa, chiesa, stalla, cavalli: il tutto in una
capanna di fango con il tetto di paglia.
E cominciai…Voi chiederete, “A
evangelizzare?”.
Avete sbagliato. Cominciai con l’accetta
a disboscare…per respirare. Nella capanna c’era troppo
fumo: costruii una cucina a parte. Attorno alla casa, nell’erba
tanta sanguisughe. Vi costruii attorno un largo sentiero
pulito.
E cominciai…Voi chiederete, “A
evangelizzare?”.
Avete sbagliato. Cominciai a fare il
medico, a distribuire medicine, ringraziando chi si degnava
di accettare, dalle mie mani, pillole di chinino (quanto
chinino!), chi si lasciava ungere con unguento solforico
(quanta scabbia, me la presi anch’io!). Alla sera attorno
al fuoco, al chiaror della lucerna fumosa, studiava lingue e
medicina. Se il peso della solitudine mi disanimava e la
febbre malarica mi veniva a tener compagnia, mi divertivo a
scrivere un articoletto per Italia Missionaria.
Rivedevo i miei confratelli una volta
all’anno. Troppo solo: poetavo per non piangere, scrivevo
la notte per allungare la giornata. E cominciai…Voi
chiederete, “A evangelizzare?”. Mi dispiace ma avete
sbagliato. Almeno come immaginate.
Cominciai a camminare, camminare,
camminare. Il Vangelo io lo conoscevo, la amavo, lo
praticavo, ma me lo dovevo tenere in cuore solo per me. La
gente sospettosa non ne voleva sentire. Avrei dovuto
dimostrare con i fatti che quello che poi avrei predicato
era vero. Ai primi tempi, entrando nei villaggi, la gente
fuggiva, si nascondeva nelle case e, dalle fessure delle
capanne di bambù, osservava le mie mosse. Era la prima
volta che un uomo di pelle bianca, con tanto di barba,
veniva in mezzo a loro.
L’importuno ero io, non loro. Il mio
lavoro era solo quello di donare ciò che avevo, quel che
potevo, ciò che mi chiedevano. Il privarmi anche del
necessario mi era di soddisfazione. Se mi davano da
mangiare, dicevo sempre che era molto buono, benché ancora
non fossi avvezzo ai peperoni. Accondiscendere, accontentare
sino al massimo grado. Avevo più desiderio di dare che loro
di ricevere. Mi pareva un atto di fiducia anche se mi
tiravano la barba.
A me essi chiedevano riso, vestiti,
benessere, medicine…In cambio mi accontentavo di potermi
occupare della loro vita spirituale. Chi dei due era il più
esigente? Loro che non volevano morire di fame e di
malattia, o io che li volevo condurre a un Dio che è Padre?
In questo sforzo, per tutta la mia
vita, il mio obiettivo sono state le persone umili e
semplici: orfani, ammalati, relitti umani, rifiutati dalla
società, vedove, miserabili.
Rendere felici gli infelici era il mio
ideale e dopo 43 anni di pazienza i felici ci sono. Quanti?
Sul principio li contavo, poi mi sembrò inutile. La mia
preferenza fu sempre per gli orfani, e spero che in punto di
morte, nel momento del giudizio, essi siano la mia salvezza
o almeno la mia giustificazione, perché soprattutto essi
furono il mio sole, la mia speranza, il mio amore.
A loro, più che ad altri, donai me
stesso. Molti mi hanno reso “nonno” e nel loro nido
rifatto conoscono l’amore e Colui che è la fonte dell’amore.
Che mio serbino più o meno riconoscenza, poca importa, se
stanno bene loro, sto bene anch’io.
da Il bosco delle perle
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